Self-ie: testimoniare la propria presenza

Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio.
Frida Kahlo

Ogni cosa è un autoritratto.
Ogni cosa è un diario.
Chuck Palahniuk

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Quando ci troviamo di fronte a una parola e ne vogliamo conoscere il significato, o i suoi significati, prima di analizzarne le interpretazioni, le alterazioni, le contaminazioni, gli abusi e le manipolazioni dialettiche, dovremmo prendere un dizionario, così mi ha insegnato mia madre, e cercare quella parola nell’universo del linguaggio condiviso, sedimentato, e partire da lì per assumerne le ulteriori sfumature o evoluzioni semantiche, per poi eventualmente stabilire quello che è il significato più significante solo per noi! Per le nostre frasi, il nostro pensiero. Il significato di quello che vogliamo dire, con più precisione.

Il termine “selfie” deriva dall’inglese self (se stesso) e viene utilizzato per indicare un autoscatto ottenuto senza l’ausilio della temporizzazione e fatto usando uno smartphone o una webcam per poi essere condiviso sul web (Oxford Dictionaries).

Ora, se escludete quella mia di banalizzare o di fare la maestrina, la finalità del selfie è, dunque, quella di essere condiviso sul web. La finalità è dunque: condividere se stessi nel web. Ma riguardo le motivazioni soggettive o le cause/concause individuali, sociali, ambientali, relazionali della condivisione di se stessi, della immagine che si ha o si vuole avere di sé (stessi) nella piazza virtuale, il significato della parola sul dizionario, a ben vedere, non aggiunge altro.

E allora, a questo punto, siamo noi che possiamo sbizzarrirci?! Del resto, i social servono anche a questo. Internet in generale ci permette di diventare opinionisti orizzontali, esperti competenti alla portata di tutti, e avere riconosciuta così quella competenza, che noi stessi facilmente riconosciamo a noi stessi, con lo stesso metodo di giudizio dei selfie: il numero dei consensi.

Se poi si originano conflitti e sofferenza in merito, tra l’io il super-io e tutti gli altri, meglio così, dobbiamo essere rivoluzionari in un mondo di mentecatti che stanno tutto il tempo a farsi le foto, bisogna dirglielo, vincere questo arretramento, questa involuzione, questo “vuoto generazionale”, questo analfabetismo generato dall’iperimmaginifico di sé, e possiamo farlo solo con il nostro puro e duro pensiero consapevole (consapevole?).
La nostra verità sulle cose.

Ma se pure avessimo ragione nel disdegnare i selfie, e in qualche maniera implicita nel disprezzare chi li usa, questo altro “sé” che esprimiamo ugualmente così prepotente, cioè quel sé che ci convince di avere ragione, dove lo mettiamo? È più o meno una forma di narcisismo intellettuale? Forse anche più pericoloso e che non di rado esprimo anche io, con tanta gioia e interiorizzata superiorità? Gli altri sono scollati. E noi? Tutti di un pezzo. Ben strutturati.
Noi siamo il giudizio.

Con le piattaforme social, in particolare con FB e Instagram, il fenomeno dei selfie (non ve lo sto a dire io) è diventato in realtà assai popolare (una moda, una mania, una pratica assai preoccupante per i più, i benpensanti, quelli che naturalmente valutano appunto “narcisistico” questo comportamento con le dovute implicazioni che ne derivano: ingombrare con la propria faccia, il proprio corpo, spesso nudo o seminudo, il monitor degli altri è aberrante).

Ed è forse sul corpo, sul senso del corpo che dovremmo focalizzare la nostra attenzione, e non disapprovazione, anche con riferimento alla pratica dei selfie, è sulla sua mortificazione, sulle violenze non di rado subite in senso lato dal corpo in questa società che dovremmo riflettere (ma forse ci scriverò un altro articolo, non posso annoiarvi con troppi temi connessi). Tra liquidità e ipersessualità (concetti di cui abbiamo abusato al nostro solito, pur non avendone compreso appieno ancora la dimensione post moderna) il corpo è diventato Altro da noi proprio per come è fruito dagli altri, anche nelle relazioni non virtuali.

Usato pressoché da tutti, il selfie di fatto infastidisce la maggior parte degli intellettuali, dei sociologi di maniera, degli psicologi, dei filosofi, dei pedagogisti, degli anticapitalisti, dei genitori, e in particolare degli ex (che siano anche ex suocere, ex cognate, ed ex amici, ancora amici del tuo ex).

La domanda imperante (e per me davvero fastidiosa, qualunquistica): come è stato possibile che i social ci abbiano ridotto così?

Tutto è cominciato con l’introduzione nel 2010 della telecamera frontale nell’IPhone 4. E cioè da quando le immagini possono essere scattate guardandoci direttamente nel monitor per come verremo in foto, e sia con la fotocamera del cellulare tenuta a braccio teso, sia attraverso uno specchio, ma a volte anche utilizzando accessori con appositi supporti per reggere il dispositivo, come la famosa “asta per i selfie”.

Che sia allora tutta colpa dell’IPhone e degli americani? Deduzioni per deduzioni!

Secondo una ricerca condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 2014 e promossa da Fondazione IBSA, a farla da padrone è invece il desiderio di sentirsi apprezzati dagli altri, seguito dalla vanità e dal bisogno di raccontare un momento della propria vita e solo in minima parte dalla volontà di sedurre. Seguiamone il risultato.

Il Prof. Giuseppe Riva con riferimento allo studio psicologico di 150 giovani adulti spiega che “un selfie è da considerarsi differente da un semplice autoscatto, il quale non prevede la componente social della condivisione, e anche da un self-shot, termine che nel contesto dei nuovi media è arrivato a identificare le fotografie di se stessi a tema erotico. Vista la diffusione dei selfie, e il grande interesse che essi suscitano presso l’opinione pubblica, la stampa specializzata internazionale ha cercato spesso di approfondire il fenomeno, cercando di comprendere la sua natura, il suo significato e le sue conseguenze. La nostra ricerca, tuttora in corso,  ha tre obiettivi conoscitivi principali, comprendere:

– perché le persone si fanno i selfie (quali motivazioni le spingono);

– se ci sono differenze tra uomini e donne per quanto riguarda questa pratica; 

– analizzare le possibili caratteristiche psicologiche, dal punto di vista della personalità, delle persone che si fanno selfie.

La ricerca ha già mostrato dei risultati preliminari interessanti per quel che riguarda tutti e tre gli obiettivi (agosto-ottobre 2014). 150 partecipanti (35% maschi, 65% femmine), con età media di 32 anni, hanno completato un questionario sui dati anagrafici; uno sul loro utilizzo di social media, sull’attività del selfie e sulle motivazioni associate ad esso; il questionario Big Five Inventory per la misurazione dei tratti di personalità.

– Per quanto riguarda il primo obiettivo di ricerca, è emerso che gli scopi riconosciuti all’attività del selfie sono soprattutto “far ridere e divertire gli altri” (39%), “vanità” (30%) e “raccontare un momento della propria vita” (21%). Quanto ai motivi per cui le persone si fanno i selfie, emerge che se li fanno non tanto per esprimere come sono o come si sentono (identità, aspetti interiori) bensì per raccontare agli altri con chi sono, dove sono e cosa stanno facendo (aspetti esteriori).

– Per quanto riguarda il secondo obiettivo di ricerca, le donne si fanno notevolmente più selfie degli uomini, e risultano più interessate alle motivazioni interiori (mi faccio selfie per mostrare come sono e come mi sento). Inoltre, affermano di sperare maggiormente di ricevere commenti positivi dagli amici sui social network, e anche di temere maggiormente di ricevere commenti negativi dagli altri.

– Per quanto riguarda l’ultima domanda di ricerca, sono tre gli aspetti della personalità che risultano associati all’attività del selfie. Le persone che si fanno selfie, rispetto a coloro che non se li fanno, appaiono significativamente più estroverse (ovvero più socievoli ed entusiaste, caratterizzate da elevate capacità sociali) e più coscienziose (ovvero più caute e capaci di controllarsi, con la tendenza a pianificare le proprie azioni piuttosto che ad agire di impulso). Inoltre, essere molto estroversi si associa a un maggior utilizzo dei selfie per mostrare agli altri “come ci si sente”, mentre essere molto coscienziosi si associa al non essere particolarmente interessati ai commenti degli altri ai propri selfie, positivi o negativi che siano. Da ultimo, il tratto del neuroticismo o instabilità emotiva (tipico di persone che tendono a provare emozioni negative come rabbia e tristezza, sovente diffidenti nei confronti degli altri) si associa significativamente all’essere particolarmente preoccupati dalla possibilità di ricevere commenti negativi”.

Questa ricerca fatta in Italia risulta per me già molto interessante. Ma ce ne sono altre da consultare, soprattutto americane, e vi invito a farlo se volete superare i luoghi comuni. Ed è interessante perché, intanto smonta alcune prese di posizione collettive, poi perché sottolinea una cosa di cui io sono sempre abbastanza convinta, al di là dei risultati già molto significativi che non mi spingo ulteriormente a commentare, e cioè che i fenomeni esigono sempre ulteriori approfondimenti su approfondimenti, e gli approfondimenti non possono che essere dettati dai dubbi che le cose non siano come siamo convinti che siano.

Bisogna anche sottolineare che, come al solito, in Italia non ci sono molti studi a riguardo, la ricerca costa e i luoghi comuni sono più funzionali a regimi politici di asservimento, o polarizzanti. E invece in un mondo che sta cambiando bisognerebbe dotarsi sempre più di strumenti nuovi e di analisi ulteriori, metodi sempre più adeguati, con l’auspicio che altre e altre ricerche ancora aggiungano strumenti di analisi e di lettura dei fatti e dei fenomeni in contesti specifici (in Italia potrebbe essere diverso che in America). Ma noi, ribadisco, preferiamo i luoghi comuni, per radicare o radicalizzare semplicemente certezze di giudizio sugli altri che ci sembrano diversi da noi o che si comportano in maniera non conforme, e siccome io invece voglio sempre capirci meglio, e in particolare capire meglio il mio tempo, le condizioni e gli stati che portano a certi comportamenti a me contemporanei, il fatto che ci piacciano o meno questi comportamenti, non lo trovo per niente interessante. Come non è interessante ingenerare allarmismi sul “pericolo” sociale di questi stessi comportamenti.

Di fronte agli altri che si esprimono, anche fosse la loro espressione al limite della devianza, io non mi metto, e auspico nessuno si metta, nella posizione della censura. Tutte le modalità espressive, non fosse che la Abramović ce lo ha insegnato, ci dicono soltanto una cosa: che sono le regole sociali a vacillare, a essere in collisione con gli individui, e che sono gli individui, poi in gruppo, poi in massa, a cambiare quelle regole che non “funzionano” più. Anche spontaneamente.

E se un certo numero di individui si sta ribellando alle caselle di etichettamento cui restiamo attaccati per le nostre ragioni di vita che sentiamo messe in pericolo, io trovo interessante analizzarne le cause, immergermi nel contesto e capirne le conseguenze collettive.

E allora, per quanto mi riguarda, con riferimento ai selfie ho ragionato sul Corpo, sui corpi, non soltanto sull’identità o sul “come mi sento”. Ho ragionato sulla presenza. E se fosse che le persone vogliono semplicemente essere presenti, e cercano il modo? Ognuno di noi vuole stare negli occhi dell’altro, e non soltanto per avere riconoscimento per la propria bellezza, o non sempre, più spesso perché nella vita reale siamo invisibili, siamo soli. Il tempo passa e vorremmo che gli altri ci aggrappassero momento per momento.

Forse anche su questo bisognerebbe approfondire.