Malamerica, storie di corpi in viaggio

Non fu il mare a raccoglierci, noi raccogliemmo il mare a braccia aperte. […] Servitevi di noi, giacimenti di vita da sfruttare, piante, metallo, mani, molto di più di una forza lavoro
Erri de Luca

Incontro con la drammaturgia di Vincenza Costantino

Dopo essere sopravvissuti per lunghe settimane stivati come merci di scarso valore, nella maleodorante steerage di un grande piroscafo capace di attraversare l’oceano Atlantico, alle prime luci dell’alba, quando i chilometri di distanza che separavano il mare dalla terra ferma erano circa 40, quell’ enorme statua con una corona sulla testa e una torcia issata verso un cielo gonfio di speranze, doveva apparire, agli occhi dei migranti che, da fine ‘800 a metà ‘900 si imbarcarono alla ricerca di una vita nuova, ancora più imponente di quanto non lo fosse già nella realtà. Per molte settimane lo sguardo di tutte le persone che componevano l’enorme carico umano era rimasto basso, adattato a quella condizione che li vedeva ammassati in una sorta di girone infernale, dal quale qualcuno non ne sarebbe uscito vivo. Corpi in viaggio verso una nuova terra ferma che altri non avrebbero mai toccato,  corpi accolti dalle acque come luogo di eterna sepoltura, corpi come una stiva piena di trepidazione.

Tutto questo è la storia di quell’ emigrazione che da sempre è stata al centro delle riflessioni e della scrittura drammaturgica di Vincenza Costantino;  lei che proprio nella drammaturgia  è riuscita a trovare la sua personale libertà che illumina il mondo.

L’idea di Malamerica, come racconta la Costantino, nasce nel 2015 dalle suggestioni raccolte nel volume fotografico Trovare l’America. Storia illustrata degli italo americani nelle collezioni della Library of Congress, un testo del 2013 di Linda Berret Osborne. Ma non è sulle storie degli italiani divenuti famosi che la Costantino si vuole soffermare, da Fiorello La Guardia a Joe di Maggio ce n’erano tanti, quanto negli sguardi di quegli emigrati di cui nessuno ricorda più il nome e di cui non rimane nessuna memoria. Le storie di chi non ce l’ha fatta, è esattamente questo l’intento della scrittura drammaturgica. Un tema, quello dell’emigrazione, che ricorre fin dalla prima drammaturgia della Costantino,  il suo primo spettacolo Jennu Brigannu, storie di briganti e calabresi, si chiudeva con un grande dilemma che risuona quasi come il ben più famoso dubbio amletico: essere brigante o emigrare, questo è il problema.  Costantino, dopo Jennu Brigannu, racconta un’altra storia di sradicamento dalle proprie radici sociali e culturali, lo fa attraverso L’emigrazione è puttana, la storia di una famiglia divisa a causa di un’inevitabile ricerca del lavoro oltreoceano. Non è il racconto di chi parte, è il racconto di chi resta,  di quelle donne che, rimaste sole, si trovarono nella condizione di emanciparsi anche imparando a leggere e a fare di conto, donne che da sole hanno costruito la realtà dei borghi calabresi rimasti quasi sempre senza uomini.

Per Vincenza Costantino la parola è serva della scena, proprio per questo deve essere affidata a chi la interpreta, alla loro voce e alla gestualità che ne determina il controllo dello spazio nel quale si muovono gli attori. Tutto questo indica una libertà che è propria di ogni testo teatrale, perché, contrariamente alla narrativa, la drammaturgia, riesce a rinunciare alla linearità della storia, lasciando all’attore la possibilità di tradurre in azioni, quindi a imprimere emozioni, la parola scritta.

La scelta registica di Ernesto Orrico fa si che i personaggi di Malamerica emergano come figure caravaggesche. La luce cade sui protagonisti della storia, personaggi comuni, stagliandoli dal buio della scena, riuscendo così a evidenziarne tutta la forza e la potenza emotiva. Il luogo è quello di una boarding house di New York, le vicende accadono in un tempo extratemporale e si sviluppano in una dimensione metastorica. La pensione di Mary è un luogo di transito, si alternano una serie di personaggi che in quel presente raccontano storie che si ripetono, replicando vicissitudini che rimangono inalterate nel tempo.  Tutto avviene attraverso una porta di transfert  che altro non è che il corpo degli attori in scena, il mezzo attraverso il quale si avvicendano identità che parlano di storie di sfruttamento, quello di ieri come quello di oggi. Cambiare abito significa incontrare altre individualità, nuove storie, nuove amarezze, nuove sconfitte. Contraddizioni che si consumano in rapporti di conflittualità, rimorsi e rimpianti. La conquista dell’amore per una giovane ragazza si trasforma nella conquista dell’America, non importa se per questo si muore di lavoro senza essere vecchie, ma l’importante è essersi lasciate alle spalle una vita fatta di prostituzione. Si può amare incondizionatamente anche senza essere madre, senza essere figlia; si può amare senza riserve quando si è sole al mondo, si può amare in maniera assoluta per poi scoprirlo solo quando si cerca di ricomporre dignitosamente un corpo vecchio, senza che quella donna sia mai riuscita a diventare vecchia.

Vite che  passano in fretta, con la stessa velocità con cui si indossa un paio di scarpe, un cappello o una giacca. Vite che si scontrano con la consapevolezza che il grande sogno americano altro non è che un incubo che muta in puzza di job, sempre la puzza di job che toglie l’identità e anche i sogni alle persone, quella puzza di job che ricorda la puzza dell’accozzaglia umana nella parte più bassa delle navi a vapore, ma nonostante tutto, questi uomini e queste donne, riescono ancora a conservare la memoria degli odori della propria terra, del pane e dell’olio. Vite ormai massificate, soffocate e annientate dalla loro stessa condizione di migranti, colpevoli di aver inseguito un sogno. Materiale umano ormai capitalizzato, l’unica cosa che conta nella società che guarda ai consumi. Dialoghi anche convulsi che si esprimono attraverso un linguaggio di code switching, perché solo mescolando codici diversi, di lingue culturalmente distanti, si possono trasmettere in maniera incisiva le proprie consapevolezze, quelle che hanno fatto comprendere a milioni di italiani sbarcati in America che lì non esistevano le strade lastricate d’oro, anzi non erano lastricate affatto e toccava a loro lastricarle.  

Un monologo finale segna icasticamente la comprensione del valore della propria indipendenza: una donna che non è madre, santa, moglie, non è disperata,  mantiene accesa la fiaccola della libertà e sotto i suoi piedi calpesta le catene simbolo della schiavitù. Una donna personificazione simbolica dell’autodeterminazione, un’allegoria che si traduce in un vero e proprio Manifesto femminista.

Un elemento comune lega le navi dei migranti, l’isolotto di Ellis Island che accoglieva continui flussi umani al loro arrivo, i corpi dei personaggi che si alternano sulla scena e la pensione di Mary, questo elemento è dato dal loro essere luoghi liminali, collocando tra un dentro e un fuori la percezione,  consentendo così quella trasformazione che solo il passaggio da una dimensione e un’altra può consentire. Scivoliamo in quelle dinamiche che riconducono ai riti di separazione, di aggregazione e soprattutto di marginalizzazione.

Malamerica è una produzione Teatro Rossosimona, testo drammaturgico di Vincenza Costantino, regia di Ernesto Orrico, anche interprete insieme a Mariasilvia Greco, le musiche originali sono di Massimo Garritano, i costumi sono di Rita Zàngari. Le foto di scena sono di Pietro Scarcello.

Lo spettacolo ha debuttato il due di aprile al Teatro Gambaro di San Fili, borgo alle porte di Cosenza famoso per le leggendarie storie che lo vogliono abitato da spiriti, lupi mannari e da quelle figure mitologiche delle ‘magare’.

 

di Maria Concetta Loria