Ruggero Artale è uno studioso del ritmo, e nella contaminazione che fa tra il “suo suono”, carico di vissuto e studio, e la musica africana tribale, carica di misticismo e primitivismo, ci regala suggestioni nuove e una visione degli strumenti a percussione come un ritrovamento della nostra antica e profonda provenienza da quel continente melanconico e ribelle che è l’Africa.
C’è, anche nel suo portamento, lento e denso, quell’atteggiamento spirituale che contorna la sua personalità, subito evidente mentre suona i suoi amati e curati djembe, quelle “casse cave di legno a forma di calice” che tratta come persone che portano la loro storia.

Questo sono i sogni: stanze vuote comunicanti. E quando l’infrangersi della fiducia nella realtà crea ombre, solo i cristalli di luce surreali dei bicchieri rotti, delle gocce di pioggia o delle lacrime, l’apertura di una porta verso l’interno, nel buio, per fare entrare la lampadina del corridoio, o la luce del sole dalle fessure delle tapparelle, con le pareti a strisce e il pavimento occupato dai dettagli a pezzetti, il giallo acceso di una lampada lungo un letto sperduto, o una scrivania invasa, che si allunga per gli spigoli sui soffitti, solo questi sprazzi di immaginifico possono riportarci all’interno del tutto, e sopra le cose di tutti i giorni. È come leggere, o scrivere, quando diventa necessario, essenziale, per singole parole sopraggiunte. Intravedendo. Sospettando. Inventando.
L’invito è a leggere. E io aggiungo: a scrivere!

Sul lato della scena Paola Minaccioni accompagnata da quattro musicisti (Valerio Guaraldi – arrangiamenti e chitarre; Claudio Giusti – sax tenore, contralto e flauto; Giuseppe Romagnoli – contrabbasso e basso elettrico; Matteo Bultrini – batteria e percussioni), un’atmosfera intima e di racconto, una voce fedelmente rauca, rotta a volte da un groppo in gola, perché davvero la vita della Magnani somiglia a tante vite e a tante vite di attrici, e forse Paola l’ha fatta magnificamente sua.

“In una toccante composizione sonora che cerca di restituire l’emozione del passaggio del tempo”, Riccardo Fazi e Claudia Sorace, in arte Muta Imago, tornano in scena a Roma, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con “Ashes”, la performance che nel 2022 è valsa alla compagnia i Premio Ubu come Miglior attore e Miglior Spettacolo Sonoro.
E in effetti i premi sono meritatissimi.

Tony Esposito porta sul palco del Teatro Olimpico di Roma un progetto artistico musicale molto particolare e di pregio, denominato “Tribal/Classic”, con dei brani di musica classica (Bach, Mozart, Monteverdi, Pachelbel) in una versione “Tribal”, con ritmi e percussioni da tutto il mondo.
Il progetto è vincitore di Avviso Pubblico promosso da Roma Capitale in collaborazione con Zetema Progetto Cultura

Eppure, se solo sapessimo veramente che le cose brutte della nostra vita le racconta il teatro, e che ci difende nel raccontarle! Il teatro è onesto intellettualmente sennò muore, parla alla comunità per far comprendere, parla “a noi tutti” come dice Eduardo per i nostri figli. E solo se si prova il dolore degli altri si comprende veramente il proprio. Il teatro permette questo: ri-presentare (rappresentare) a se stessi il dolore per la vita, com’è.

Quest’opera teatrale prende in prestito un fatto di cronaca raccontato da Laurent Mauvignier, la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Un monologo. Un’emorragia di parole nel resoconto minuzioso di una morte assurda, interpretata esaurientemente da un attore ugualmente tragico nella sua parte, molto convincente Vincenzo Pirrotta. “Quel che io chiamo oblio” è il titolo originale di questo monologo, “Storia di un oblio” in questa trasposizione teatrale.

Una regia potente, e di un monologo, perché i gesti e le accortezze della luce, dell’inquadramento proprio degli stati d’animo e delle rivendicazioni sociali attraverso le espressioni, la cristallizzazione delle facce e delle posture, fanno proprio quelli la differenza su tutto. Microsociologia.
Un’Attrice con la A maiuscola, consapevole del ruolo e del fatto, del rappresentare con le parole che sono ogni volta un mondo teatrale a sé per la potenza del messaggio, del ri-presentare allo spettatore la vita amletica di tutti i giorni. Bello il testo. Bello il teatro (per me nuovo).

Perfect Days è un film del 2023 diretto da Wim Wenders. Lingua originale, giapponese. Paese di produzione, Giappone, Germania. Anno, 2023.
Il film doveva inizialmente essere un documentario sulle toilette pubbliche, parte del progetto The Tokyo Toilet, ed era stato commissionato espressamente a Wim Wenders in virtù delle sue precedenti felici esperienze con il cinema giapponese. Lavorando al film, però, il regista ha preferito realizzarlo come un’opera narrativa, mostrando le varie toilette come i set dove si svolgono le vicende dei personaggi.

La scena del Teatro Vascello è azzurra, lunare, è di un tribunale abbandonato, con lo scranno del giudice senza il giudice, le carte sono sparpagliate dovunque, ed entra un vento siberiano inquietante, alla Dottor Zivago, che fa da mulinello per tutti quei documenti, c’è un vecchio accasciato su se stesso immerso in un cappotto più vecchio di lui, quasi fosse ormai un barbone inascoltato, e invece si anima e sbraita, e nell’invettiva contro se stesso cita le più belle opere dell’autore, in particolare “Il grande inquisitore”, e quando un grande specchio si apre al centro di quello scantinato archivio, il vecchio si moltiplica, e si vede di spalle e di lato, fiero, finalmente fiero di raccontarsi la verità senza scuse.