Benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.

Questa intervista, senza pretese di dare risposte, soluzioni o pareri, vuole solo raccontare di una accoglienza che può e deve essere sempre più praticabile e replicabile, che è stata possibile grazie alle persone che fanno parte di questa storia. Ne emerge una reciprocità naturale che si sviluppa da sola, che arricchisce perché, ad accomunare i protagonisti, c’è una condizione di cui ci si dimentica troppo facilmente: sono tutti esseri umani, siamo tutti esseri umani, e tutti degni di esserlo.

Un tempo era più facile, l’intellettuale era colui che leggeva, scriveva e aveva una visione del mondo e del futuro in un’epoca dove si leggeva, scriveva e si puntava sulla scolarizzazione. Un’epoca in cui esisteva l’ascensore sociale, dove il contadino e l’operaio si indebitavano per far studiare i figli che diventavano avvocati, dottori o, appunto, intellettuali. Un’epoca in cui la laurea era considerata un punto di arrivo, un traguardo raggiunto da un’intera famiglia.

Vivo nel villaggio che vive di vita vera , di allegria e di sogni, di quelle stesse speranze oggi finite nel vortice di un tempo che non avrà memoria.
Questa eterotopia, lo spazio creato in stretta relazione con tutti gli aspetti della nostra esistenza, riflessa nella dimensione digitale, illusoria e controllata potrebbe essere il perfetto sinonimo del termine antropocene, le conseguenze dell’uno e dell’altro fenomeno sono terribilmente impattanti sulla vita del pianeta quanto su quella di ogni singola individualità.