Ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra, questo è indubbio, non solo a causa della colpa comune originaria, ma ciascuno individualmente per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla Terra
(Fëdor Dostoevskij)
C’è un momento, o forse ce ne sono tanti ogni giorno, ma poi ce n’è uno ultimo, definitivo, centrale, in cui parliamo profondamente da soli con noi stessi, o forse parliamo con un assente, o più assenti di noi, dei noi che siamo stati. A volte è morto quello con cui parliamo, o sta morendo. A volte continua a vivere, ma senza darci nessuna risposta. A volte l’abbiamo ucciso. Brutalmente. Spietati. Seppellendolo vivo. Certo è che ogni volta in quel dialogo c’è tutto il senso della nostra vita. No, non è un monologo come a teatro, nella vita vera no, solo in quella verosimile.
Nella vita vera continuiamo ad aspettarci le risposte da qualcuno che ci vive accanto, o ci è vissuto accanto, e ci vive ancora dentro, seppure lo interroghiamo rimanendo da soli davanti a noi stessi.
A teatro quella solitudine è inesorabile, è la solitudine del monologo che cerca le risposte solo nel buio, e nel buio di ogni spettatore che è sconosciuto. In un vuoto che è pieno. A teatro l’assente rimane assente, come un contesto, e anche quando evocato, diventa semplicemente un pensiero lasciato in aria.
Dopo Shakespeare, l’inglese Shakespeare, anticipatore, è il russo Dostoevskij a porsi di fronte a questi momenti di spleen, di impazzimento, a questi quesiti apparentemente senza interlocutore, introspettivi esistenziali (Amleto), ma col margine di una lampada da tavolo, invece che con la luna o le stelle (shakespeariane) sopra un castello, e questo per raggiungere un pensiero più puro, solitario, che non ha bisogno di altre conferme. Idealismi. Dostoevskij non si chiede l’esistenza in un luogo aperto o in un teatrino di corte (teatro nel teatro), interpellando magari gli altri personaggi, gli altri colpevoli, i colpevoli del delitto, di un crimine, fossero anche i fantasmi dei personaggi, Dostoevskij non ha bisogno di una verità storica, ma di una verità ideale, si chiude dentro una stanza, una stanza tutta per sé, un’aula di tribunale dove si sotterra, dove impazzisce, e dove comunque rimane razionale, per scavare da solo, lucido, il luogo cavernoso dove va a nascondersi, dove vuole scarnificare quelle sue antiche domande da filosofo individualista, e per questo sempre esiliato da ogni ragionamento comune, da ogni processo pubblico o collettivo.
Il concetto è rimanere a tu per tu con il proprio io dopo il delitto, solo pensato, escogitato, ma con un io che malauguratamente rappresenta tutti gli altri, anche gli esecutori, perché è un io assoluto. E quando si risponde, risponde a un se stesso esausto per l’inutile dialettica, come se dovesse venire ancora qualcuno, che però mai viene a salvarlo da quella condizione di angoscia solitaria. E se si risponde, se risponde a se stesso, non è per un processo kafkiano di trasformazione, e allo stesso tempo di degenerazione decomposizione sociale fino a strisciare via nei microcosmi del sistema, come gli insetti, oppure restando inchiodato con la schiena su un letto come un invalido, se si risponde è per restare invece monolitico davanti a uno specchio, eretto, uno specchio che ritiene giusto e implacabile, che ritiene spietato com’è lui, spietato come può essere solo uno specchio, per una definitiva condanna personale che si dà da solo, che deve darsi da solo, che nessun altro potrebbe permettersi di dargli del resto. E l’accetta con eroismo. Deve essere proprio quel se stesso a inquisire e condannare, quell’individuo romantico idealista irriducibile, onesto intellettualmente, che si è già sotterrato, vivo, per voler essere e voler diventare solo pensiero, seppure pensiero che vuole annullare quell’io così prepotentemente colpevole.
E siccome è uno che non può negare, nel mentre si annulla, allora quell’annullamento è una esasperazione, e diventa cattivo per quella sua verità inaccettabile che deve accettare, per quel suo continuo guardarsi dentro per farlo, sentendosi perciò sempre una creatura incompiuta, e diventando “un nichilista che divora il mondo e se stesso insieme al cibo di cui si nutre, un feticcio del nichilismo”, come dice Orsini, qualcuno che deve consumarsi lentamente perché consapevole dell’orrore umano. Del suo orrore umano.
Il romanzo di Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, che Umberto Orsini affronta per la terza volta nella sua carriera d’attore parla di un parricidio all’interno della famiglia Karamazov dove, in evidenza, sono i conflitti e i sentimenti contrastanti fra i tre fratelli, molto diversi, e il loro padre Fëdor, volgare e superficiale nella vita privata. Del parricidio viene accusato il primogenito Dmitrij, avuto dal primo matrimonio con una fanciulla dal temperamento romantico, che abbandona il marito e il figlioletto, che perciò verrà cresciuto da un servo e poi da una zia.
Fëdor si sposa una seconda volta con un’orfana di carattere dolce e sensibile, che a stare con questo zoticone si ammala di una malattia nervosa, e a furia dei suoi tradimenti muore precocemente. Da queste seconde nozze nascono Ivàn e Aleksej. Mentre Ivàn è intelligente, ma chiuso e schivo, Aleksej, anch’egli intelligente e schivo, sensibile e introverso come il fratello, ha però un’indole solare; è ingenuo, e per niente interessato ai soldi.
La trama ha uno sviluppo inaspettato quando Dmitrij, che per ovvie ragioni già disprezza il padre, pur essendosi inizialmente innamorato di Katerina, incontra una donna bellissima che odia gli uomini per il fatto che l’abbiano fatta tanto soffrire, Grušenka, e si innamora stavolta di lei, ma Grušenka è anche nei pensieri del padre disprezzato, mentre Katerina ora è il desiderio d’amore di Ivàn. Un “bordello”! Il tutto complicato dall’eredità. Altro personaggio fondamentale del romanzo è Smerdjakov, probabile figlio naturale di Fëdor e di una donna, Lizaveta, considerata pazza. Un “illegittimo” che pare si muova nell’ombra. Insomma tutti i personaggi sono sfaccettature di un unico profilo complesso.
Lo spettacolo è incentrato sul fatto che Ivàn, il più cinico, assume la regia del delitto, mentre Dmitrij diventa, spinto dall’odio verso il padre, l’esecutore materiale, l’assassino.
La scena del Teatro Vascello è azzurra, lunare, è di un tribunale abbandonato, con lo scranno del giudice senza il giudice, le carte sono sparpagliate dovunque, ed entra un vento siberiano inquietante, alla Dottor Zivago, che fa da mulinello per tutti quei documenti, c’è un vecchio accasciato su se stesso immerso in un cappotto più vecchio di lui, quasi fosse ormai un barbone inascoltato, e invece si anima e sbraita, e nell’invettiva contro se stesso cita le più belle opere dell’autore, in particolare “Il grande inquisitore”, e quando un grande specchio si apre al centro di quello scantinato archivio, il vecchio si moltiplica, e si vede di spalle e di lato, fiero, finalmente fiero di raccontarsi la verità senza scuse.
Ciò che colpisce veramente è l’immedesimazione assoluta dell’attore con l’autore, e quella sua commovente sovrapposizione, bravissimo Umberto Orsini, algido e fiero, monolitico e rotto, cinico e surreale in quel suo modo perfetto di affidarsi alle parole di Dostoevskij, per un teatro forse morente, un genere teatrale davvero fin troppo sfruttato, ma che rimane comunque emblematico di uno stile integerrimo e pieno di sé. La regia è in linea con la drammaticità dell’unico personaggio che li contiene tutti, esaltandone ogni respiro. L’emozione è delle opere messe insieme in una trama esistenziale sempre attuale (seppure forse avrebbe bisogno oggi di altre interpretazioni più contemporanee).
Visto al Teatro Vascello di Roma.
di Chiara Merlo
“Le Memorie Di Ivan Karamazov” con Umberto Orsini
drammaturgia di Umberto Orsini e Luca Micheletti
dal romanzo di Fedor M. Dostoevskij
regia Luca Micheletti
produzione Compagnia Umberto Orsini
Durata: 70′