…ma non preoccupatevi di sentirvi in colpa

Tutte le cose che si dimenticano gridano aiuto....

(Elías Canetti)

Quando ti picchiano, ti uccidono. Sia se ti picchiano poco, sia se ti picchiano fino a sfinirti.

Vedere picchiare qualcuno, ti uccide, senti il tonfo dei calci e dei pugni, ma di più il silenzio fra un colpo e un altro.

Se ti picchiano e sfogano tutta la loro rabbia e avversione contro la tua testa, il tuo petto, la tua debolezza e la tua vulnerabilità, non sarai mai più forte. Il gesto di piegarti e coprirti con le mani, di cadere in ginocchio e restare solo contro tutti, contro tutti quei tutti che ti picchiano, e anche quelli che solo assistono inermi, sarà emblematico per tutta la tua esistenza. E per questo a volte ti picchiano di nascosto o in un angolo, in una stanza senza nessuno o in una cella. Perché tu possa ricordarlo più intensamente. Come un trauma.

Solo chi è stato picchiato a lungo, e con cattiveria, sa cosa significhi veramente la crudeltà, l’inarrestabile crudeltà dei vigliacchi, di chi abusa del potere per punire, di chi gode sadico dei tessuti che diventano molli, e della paura che corre elettrica tra il cuore, la mente e gli organi genitali. La pelle che si strappa. Non si può dimenticare, si può soltanto morire. Morire per sempre. Anche quando si resta vivi. Ma l’intenzione è proprio farti morire, o farti avvicinare il più possibile alla morte da averne ancora più paura.

E spesso, quando pure sopravvivi, succede che dormi e sogni di essere picchiato, senti un rumore e ti aspetti un colpo di lato, ti sposti, e ti senti cadere nel nulla. È un orrore vuoto che ti inghiotte in ogni momento quando ti avvicini a qualcuno. Sempre ti aspetti di essere picchiato.

Questa storia racconta di un uomo forse vestito male che in un supermercato sembra prendere una lattina di birra senza pagarla, viene circondato da quattro predatori terribili, quattro agenti del servizio di sicurezza (sicurezza per chi?), allontanato dal mondo (in)civile, e, non visto, massacrato di botte fino a terra, e, ancora a terra, distrutto negli organi interni,  il fegato, la milza, i polmoni, i reni, dai calci e dall’assalto bestiale inumano, o forse propriamente umano, sociale, di quattro energumeni senza ragionamento, oltre che senza emozioni buone. Intelletto zero, che di solito è il criterio distinguibile per diventare esercito ottuso a difesa del patrimonio e dell’ordine pubblico. Dall’altra parte sputare sangue, sporcare di sangue il pavimento, il sangue sopra i vestiti, e sangue nei lividi già evidenti sulla faccia e sul collo. Sporcare di sangue la vita di tutti. I corpi di tutti, gli sguardi di chi non guarda.

Ma quello sembrava un criminale. Sembrava, sì. Ma neanche lo era!

Spesso i tossicodipendenti fanno questa fine, ispirano proprio quest’odio da parte degli agenti: i tossicodipendenti, gli emarginati, quelli senza nessuno, quelli che tutti hanno lasciato, abbandonato, all’assalto dei controllori della normalità! Mai i mafiosi ho visto picchiare così fino a morire.

Ora, non che tutti gli agenti abbiano questo istinto, ma alcuni sono proprio degli uccelli spazzatura, si accaniscono su quelle che sembrano già carcasse degli ultimi della catena alimentare, per eliminarli definitivamente dal mondo. Ma non è poi solo una prerogativa degli agenti, è una prerogativa in ogni caso di chi ha il consenso o l’ordine di picchiare…i figli, le mogli. Mezzi di correzione, tra abusi e maltrattamenti in famiglia!

La scena si apre con un corpo disteso in un involucro cerato, intorno alcuni degli stessi spettatori come parenti di quella salma alla sua veglia in obitorio. A terra i mezzi di prova imbustati della scena del crimine. Un crimine non suo, non del morto. Ai piedi di quel corpo un fratello (tutti noi che ci immedesimiamo), un fratello che non si capacita e si mette nudo perché venga visto il suo dolore. Un po’ parla per sé, e un po’parla come se fosse il morto. Ci dice che quella vita è stata lo stesso una vita, anche se non vista, anche se dimenticata, con la sua quotidianità e la sua bellezza. In fondo tante volte ho già fatto l’amore, dice, come fosse il morto, posso perciò considerare tutto sommato di essere stato anche felice.

Ma il fratello non si capacita, non vuole lasciarlo andare, non trova pace (ci ricorda il dolore di una sorella che ha lottato e molto per il fratello ucciso, e ci ricorda anche la sua disperata impotenza, l’offesa pubblica continua, il senso di colpa per non esserci stata quando forse si poteva evitare l’epilogo). Si mette i vestiti insanguinati di chi non c’è più e si chiede quanto effettivamente valga una vita, quante lattine di birre se hai sete.

L’opera teatrale prende in prestito un fatto di cronaca raccontato da Laurent Mauvignier, la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Un monologo. Un’emorragia di parole nel resoconto minuzioso di una morte assurda, interpretata esaurientemente da un attore ugualmente tragico nella sua parte, molto convincente Vincenzo Pirrotta. “Quel che io chiamo oblio” è il titolo originale di questo monologo, “Storia di un oblio” in questa trasposizione teatrale.

La regia di Roberto Andò è suggestiva, ci ricorda di altri fatti di cronaca, ci ricorda Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, ma forse, e in anticipo, anche i fatti di questi giorni, i facili manganelli di poliziotti antisommossa apparentemente incompetenti, che non trovano altre soluzioni operative al sangue sui volti degli universitari, seppure quei manifestanti non fossero stati autorizzati. E cos’erano quei manganelli? Crudeli o impauriti, pedissequi a un protocollo? (Cambiatelo!). Oppure “guidati”, istigati, provocati? Comunque fuori tempo, anacronistici, non più accettabili da una civiltà che ha già avuto Cesare Beccaria, Giordano Bruno e Umberto Eco. E non più accettabili dall’intelletto, per quelle che dovrebbero essere strategie di prevenzione e di contenimento certamente più avanzate, se non più intelligenti e “sostenibili”, umane finalmente. Siamo già oltre un secolo dalla scoperta dei diritti umani. Inviolabili. Non può il principio di sicurezza essere sempre così fagocitante, tanto che nel bilanciamento sempre vinca su altri interessi più forti e ugualmente comuni! Interessi alla fine propedeutici alla sicurezza.

Il protagonista, il fratello che ci chiede di non dimenticare quella vita comunque preziosa, si avvicina e ci tocca le mani, ci tocca, vuole la realtà di quel sentimento, la nostra realtà empatica di quel sentimento di vita, di vita che ancora ci chiede vita, perché resti indelebile la causa. Indelebile. Siamo impietositi, indignati, più coraggiosi.

E chissà quanti di noi si sono chiesti, nell’intimo, alla fine di questo pianto, se tutte quelle volte che abbiamo fatto l’amore siano potute bastare a dire a noi stessi che se pure morissimo saremmo già stati così tanto felici! E chissà a quanti di noi però è venuto pure in mente che prima di morire…ci sia almeno ancora una volta, e che sia ancora una volta tenera e bella, come tutte quelle tenere e belle che ci ricordiamo.

di Chiara Merlo

Storia di un oblio
di Laurent Mauvignier © Les Editions Minuit

traduzione Yasmina Melaouah Ed. Feltrinelli
regia Roberto Andò
con Vincenzo Pirrotta

suono e luci Michele Lavagna
foto di Antonio Parrinello

produzione Società per Attori

visto al Teatro India di Roma