Improvvisamente l’estate scorsa è il dramma più simbolico e visionario ti Tennessee Williams. L’opera in cui, oltretutto, l’autore americano ha inserito molti riferimenti alla sua vicenda personale e familiare. Sono espliciti i riferimenti ad una omosessualità vissuta con molti sensi di colpa, in un periodo in cui Williams veniva invitato dal suo medico personale a reprimerla, e alla vicenda della sorella Rose, sottoposta ad un intervento di lobotomia con il consenso della madre. La trama si sviluppa come un thriller psicologico intorno alla misteriosa morte di Sebastian…
Due che mettono soggezione. Per come, giocando, si mettono a nudo. Per come giocano mettendosi a nudo. Jouer, to play. Il teatro senza fraintendimenti. Ce lo dispensano in un’acrobatica ora e mezza due giovanissimi istrioni del palcoscenico, Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese, attor giovani, si sarebbe detto una volta, virgulti pieni di belle speranze a cui si rispondeva con promesse attendibili. Under trenta, trentacinque, abbiamo preso a dire adesso: da quando sparuti finanziamenti con bandi dedicati hanno finto di incoraggiare le giovani leve per far fuori gli over meritevoli senza tante spiegazioni. Tant’è. Quello che è certo è che questi due, di under, hanno soltanto l’età.
Il testo è una rocambolesca e assai verosimile storia d’amore scritta da un altro under trenta o giù di lì, Diego Pleuteri, al quale il regista over trentacinque ma under quaranta Leonardo Lidi ha di nuovo dato fiducia perché è giusto non aspettare che un giovane autore sia stanco di provare a fare l’autore e venga preso sul serio finché siamo in tempo.
Occorre tutta la nostra buona volontà e forza d’animo per potere vivere e lavorare in una realtà in così veloce trasformazione, e anche coraggio. Una qualità che l’umano contemporaneo pare abbia perduto, reminiscenza di ricordi lontani quando si moriva per una fede. Ora siamo incerti e spaventati, confusi su quale direzione prendere, a chi dare retta, presi tra evoluzione tecnologica ed empatia, conservatorismo e progressismo, destra e sinistra, idealismi e necessità. La convenienza a cui un certo progresso ci ha abituato, ha spazzato via ogni resistenza, ogni capacità di opporsi, di lottare.
Ruggero Artale è uno studioso del ritmo, e nella contaminazione che fa tra il “suo suono”, carico di vissuto e studio, e la musica africana tribale, carica di misticismo e primitivismo, ci regala suggestioni nuove e una visione degli strumenti a percussione come un ritrovamento della nostra antica e profonda provenienza da quel continente melanconico e ribelle che è l’Africa.
C’è, anche nel suo portamento, lento e denso, quell’atteggiamento spirituale che contorna la sua personalità, subito evidente mentre suona i suoi amati e curati djembe, quelle “casse cave di legno a forma di calice” che tratta come persone che portano la loro storia.
Questo sono i sogni: stanze vuote comunicanti. E quando l’infrangersi della fiducia nella realtà crea ombre, solo i cristalli di luce surreali dei bicchieri rotti, delle gocce di pioggia o delle lacrime, l’apertura di una porta verso l’interno, nel buio, per fare entrare la lampadina del corridoio, o la luce del sole dalle fessure delle tapparelle, con le pareti a strisce e il pavimento occupato dai dettagli a pezzetti, il giallo acceso di una lampada lungo un letto sperduto, o una scrivania invasa, che si allunga per gli spigoli sui soffitti, solo questi sprazzi di immaginifico possono riportarci all’interno del tutto, e sopra le cose di tutti i giorni. È come leggere, o scrivere, quando diventa necessario, essenziale, per singole parole sopraggiunte. Intravedendo. Sospettando. Inventando.
L’invito è a leggere. E io aggiungo: a scrivere!
Di queste Schegge disordinate a inchiostro policromo, spettacolo di Fausto Cabra, regista, testo di Gianni Forte, con Raffele Esposito, Anna Gualdo ed Elena Gigliotti, si è già scritto moltissimo. I feedback di pubblico e critica che passano anche attraverso i social, megafono non soltanto di pance ma anche di teste ben avvezze al teatro, sono sostanzialmente concordi nell’approvare l’operazione.
Si intitola Stabat Mater e infatti la mater stabat. Stava la madre comodamente adagiata su una poltrona, un metro sopra il resto del mondo. Non già inginocchiata e straziata ai piedi del figlio crocifisso, ma composta e immobile nella sua torre di controllo, di profilo per dare meno nell’occhio (presidio garantito ma apparentemente distratto) e probabilmente all’oscuro che la sua effige incombesse su chi si trovava di sotto.
Proiettata su uno schermo, questa volta frontale, grande quasi quanto la scena.
Parliamo dello spettacolo andato in scena alla Sala Mercato di Genova dal 1° al 6 aprile 2025, diretto e interpretato da Liv Ferracchiati insieme a Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi…
Carmelo Rifici, che ha firmato la regia e la traduzione (questa insieme a Tindaro Granata), scrive nelle note che con La pulce nell’orecchio Feydeau “affronta il rapporto tra lingua, potere e relazioni umane”. E in effetti il linguaggio è centrale, poiché ogni personaggio è informato da una propria parlata, che definisce non soltanto l’indole ma un’appartenenza precisa, l’origine, le aspirazioni, i desideri che covano, magari nascosti dentro un armadio o nella stanza di un equivoco albergo dove regole e licenze liberamente si scambiano…
Con quattro stagioni alle spalle il Moby Dick del Teatro dell’Elfo ha finalmente raggiunto la capitale, al Teatro Vascello, dove ha registrato una settimana sold out (dall’11 al 16 marzo). Evviva. Perché perderlo sarebbe stato proprio un peccato. Il testo è quello di Orson Welles che dal romanzo di Herman Melville partorì quest’opera in versi sciolti rappresentata a Londra nel 1955 e rititolata Moby Dick alla prova, ora per la prima volta in Italia nella bella traduzione di Cristina Viti. E lo spettacolo, da locandina “di Elio De Capitani”, è il risultato di un lavoro corale, fisico, energico, possibile grazie a una virtuosa coordinazione di forze. La bella cifra dell’Elfo, la squadra, il lavoro artigiano, gli attori stabili, gli assidui, i fedeli, la contaminazione che genera sinestesia.
Kornél Mundruczò è un regista teatrale e cinematografico ungherese, noto a livello internazionale e pluripremiato nei più prestigiosi festival di cinema e teatro, che arriva per la prima volta al Piccolo di Milano, al Teatro Strehler, con lo spettacolo Parallax in cui esplora il tema dell’identità di fronte ad antisemitismo, razzismo e queerfobia.