Sono andata a Cutro, non c’era più nessuno, eravamo io, un amico in silenzio, atterriti, faceva un freddo e c’era un vento…e poi c’era il suo bambino, che continuava a dire “dobbiamo pregare, ci sono le croci”, il mare era sempre cupo e agitato, e poi sì, c’erano quelle piccole croci fatte con i legnetti senza nome, gli immigrati non portano mai il loro nome qui da noi, e infine piccoli giocattoli sfigurati dalla salsedine in accumulo, come spazzatura qualsiasi trascinata lì dalla corrente. Plastica che resta, come la plastica che affoga tutto ormai. Erano arrivati lì, a riva, e sono morti. Per colpa loro!

Mentre le migliori firme si cimentano in teorie che sfociano nel complottismo politico, una cosa ci appare ormai evidente: siamo alla fine della tv culturale. Attenzione: non quella di Rai storia e Rai 5, e meno male che esistono, no. Ma quella indirizzata al grande pubblico.
Un declino annunciato già con lo spostamento di Fazio dalla rete più generalista a quell’avamposto di resistenza culturale che è Rai3.

Alla base di ogni interrogativo possibile c’è la questione del perché soprattutto le donne vengano colpevolizzate per la loro libertà sessuale, apparentemente auspicata, anche dagli uomini, e invece sempre più spesso mortificata, abusata in rapporti violenti di prevaricazione.

Il comportamento virtuale di ognuno alimenta, oppure no, la comunicazione violenta comune, stabilendo anche il significato che le diamo, e ciò oltre il profilo più o meno patologico soltanto di qualcuno. Dovremmo allora cominciare a capire che presto sarà davvero difficile distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale, dove i social network si attesteranno sempre di più come moltiplicatori di umori, frustrazioni e rabbia, invece che di stati d’animo ed emozioni positivi.

La verità è che, anche per chi non credesse in Dio, forse c’è un modo del tutto nuovo e narrativo per rimanere eternamente nell’al di qua. O forse c’è sempre stato, soltanto che adesso ha semplicemente cambiato il suo supporto. Non più lapidi ed epitaffi, scritti e libri, ma stati d’animo (post)mediatici e bacheche (diari personali) sempre più dinamiche dove incontrarsi anche dopo morti.

Chiara Merlo spiega come e soprattutto perché è nato Angelina, lo short film da lei stessa sceneggiato, diretto da Giordano Affolti che tratta del rapporto tra sesso e consenso, in senso ampio, e, nello specifico, di sfruttamento delle donne, spesso bambine, buttate in strada e costrette a fare sesso per il piacere e il denaro altrui.

Il film è un film francese, ha vinto a Venezia nel 2021. La regia è davvero unica, vissuta dal corpo, la telecamera scruta ed esplora il corpo per ogni stato d’animo drammatico. É certamente un film psicologico, ma non relazionale come i “soliti” film francesi. É un film individualista femminista, con un’attrice protagonista magnifica bellissima nel ruolo.

Siamo abituati a contare i migranti in masse incontenibili. Quelli che non muoiono affogati in mare e che affollano le nostre “belle” città, senza lavoro, senza casa, senza appartenenza, vengono visivamente e concettualmente ammassati al degrado urbano, e così si accumulano nei nostri occhi con quelle loro borse contraffatte e colorate sui marciapiedi sempre più zozzi di questa Italia che non risolve nessun problema, tanto meno di ordine spazio e sicurezza. E invece i numeri dei bambini nascosti dentro a quelle borse, fatte con mani cinesi scorticate dal freddo, ci sfuggono alla vista, né ci ingombrano i pensieri come quei “delinquenti” che arrivano (e sono islamici!). Per noi “civili”, allarmanti dal furto spicciolo e dalle religioni violente, i bambini non contano. Perciò neanche di quelli morti sappiamo o immaginiamo. Che occhi avevano? Che occhi abbiamo!