Benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.

Alla base di ogni interrogativo possibile c’è la questione del perché soprattutto le donne vengano colpevolizzate per la loro libertà sessuale, apparentemente auspicata, anche dagli uomini, e invece sempre più spesso mortificata, abusata in rapporti violenti di prevaricazione.

Consapevoli che il mutamento sociale abbia come sua componente lo spontaneo aggregarsi, integrarsi di emozioni/umori (oppure deliri), pensieri/ideali collettivi, a chi osserva i cambiamenti, nell’analisi dei fenomeni culturali e sociali del nostro tempo, risalta che il non-luogo dei social network alimenta, spesso, atteggiamenti antisociali/depressivi che nella vita reale già sono, o purtroppo diventano, (gravemente?) patologici.

Il comportamento virtuale di ognuno alimenta, oppure no, la comunicazione violenta comune, stabilendo anche il significato che le diamo, e ciò oltre il profilo più o meno patologico soltanto di qualcuno. Dovremmo allora cominciare a capire che presto sarà davvero difficile distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale, dove i social network si attesteranno sempre di più come moltiplicatori di umori, frustrazioni e rabbia, invece che di stati d’animo ed emozioni positivi.

La verità è che, anche per chi non credesse in Dio, forse c’è un modo del tutto nuovo e narrativo per rimanere eternamente nell’al di qua. O forse c’è sempre stato, soltanto che adesso ha semplicemente cambiato il suo supporto. Non più lapidi ed epitaffi, scritti e libri, ma stati d’animo (post)mediatici e bacheche (diari personali) sempre più dinamiche dove incontrarsi anche dopo morti.

Chiara Merlo spiega come e soprattutto perché è nato Angelina, lo short film da lei stessa sceneggiato, diretto da Giordano Affolti che tratta del rapporto tra sesso e consenso, in senso ampio, e, nello specifico, di sfruttamento delle donne, spesso bambine, buttate in strada e costrette a fare sesso per il piacere e il denaro altrui.

Lo spettacolo di Demian Aprea ha questa intenzione bella di recupero dell’immaginativo, e anche il testo è ben strutturato in questa direzione. L’interpretazione dimostra tutto l’amore verso Dalì e così il disgusto per la mediocrità. Un lavoro di sentimento e di gratitudine, evidentemente per il proprio percorso artistico rivolto, che è stato apprezzato proprio per questa sua evidente causa-azione.

Il film è un film francese, ha vinto a Venezia nel 2021. La regia è davvero unica, vissuta dal corpo, la telecamera scruta ed esplora il corpo per ogni stato d’animo drammatico. É certamente un film psicologico, ma non relazionale come i “soliti” film francesi. É un film individualista femminista, con un’attrice protagonista magnifica bellissima nel ruolo.