…a Gaza troppe volte abbiamo visto il mondo finire.
Bombardati noi, non dalle bombe ma dalle immagini che arrivano come pallottole di una mitragliatrice, possiamo scegliere se difenderci o se restare. Se restare in silenzio o provare a dire qualcosa, a fare qualcosa: diffondere le testimonianze di chi è lì per soccorrere, rischiando la pelle, scendere in piazza, sventolare bandiere, suonare campane, gridare free Palestina, lanciare messaggi con i nostri corpi incolumi, volontariamente sottoposti a rinunce irrisorie, ma che basterebbero a sfamare una classe intera di bambini affamati, mandare un aiuto se ce lo possiamo permettere. Scrivere due righe per cercare di capire come si arriva a scegliere la fine del mondo.

Quando pensiamo a Martin Margiela e alla sua estetica, ricordiamo la maschera. Celarsi e celare era il suo marchio. La sua etichetta un processo numerico che indicava la produzione di un oggetto di design da cui era allontanato l’ego del creatore. Un pensiero dadaista di presa di distanza, di oggettività, di onestà creativa. E cosi pure di relazione con l’altro, da cui nasceva un rapporto generativo di creatività. L’altro come ragione di vita. Un atteggiamento unico nella Moda che invece ama celebrarsi, visualizzare, trasfigurare…

Occorre tutta la nostra buona volontà e forza d’animo per potere vivere e lavorare in una realtà in così veloce trasformazione, e anche coraggio. Una qualità che l’umano contemporaneo pare abbia perduto, reminiscenza di ricordi lontani quando si moriva per una fede. Ora siamo incerti e spaventati, confusi su quale direzione prendere, a chi dare retta, presi tra evoluzione tecnologica ed empatia, conservatorismo e progressismo, destra e sinistra, idealismi e necessità. La convenienza a cui un certo progresso ci ha abituato, ha spazzato via ogni resistenza, ogni capacità di opporsi, di lottare.

Kornél Mundruczò è un regista teatrale e cinematografico ungherese, noto a livello internazionale e pluripremiato nei più prestigiosi festival di cinema e teatro, che arriva per la prima volta al Piccolo di Milano, al Teatro Strehler, con lo spettacolo Parallax in cui esplora il tema dell’identità di fronte ad antisemitismo, razzismo e queerfobia.

Eppure, se solo sapessimo veramente che le cose brutte della nostra vita le racconta il teatro, e che ci difende nel raccontarle! Il teatro è onesto intellettualmente sennò muore, parla alla comunità per far comprendere, parla “a noi tutti” come dice Eduardo per i nostri figli. E solo se si prova il dolore degli altri si comprende veramente il proprio. Il teatro permette questo: ri-presentare (rappresentare) a se stessi il dolore per la vita, com’è.

Paolo Mauro e Alessandro Castriota Skanderbeg, diretti da Lindo Nudo, portano in scena una commedia non tanto per parlare della battaglia civile delle comunità LGBT, quanto dell’amore e della difficoltà nel riconoscerlo all’interno di una società che, ancora oggi, non riesce a educare all’amore senza riserve, come se l’amore dovesse rimanere prerogativa tra persone di sesso diverso.

Quest’opera teatrale prende in prestito un fatto di cronaca raccontato da Laurent Mauvignier, la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Un monologo. Un’emorragia di parole nel resoconto minuzioso di una morte assurda, interpretata esaurientemente da un attore ugualmente tragico nella sua parte, molto convincente Vincenzo Pirrotta. “Quel che io chiamo oblio” è il titolo originale di questo monologo, “Storia di un oblio” in questa trasposizione teatrale.

Perfect Days è un film del 2023 diretto da Wim Wenders. Lingua originale, giapponese. Paese di produzione, Giappone, Germania. Anno, 2023.
Il film doveva inizialmente essere un documentario sulle toilette pubbliche, parte del progetto The Tokyo Toilet, ed era stato commissionato espressamente a Wim Wenders in virtù delle sue precedenti felici esperienze con il cinema giapponese. Lavorando al film, però, il regista ha preferito realizzarlo come un’opera narrativa, mostrando le varie toilette come i set dove si svolgono le vicende dei personaggi.

Benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.