Femininum Maskulinum uno spettacolo di Giancarlo Sepe

Un artista, un artista vero e non uno la cui professione borghese sia l'arte, uno predestinato e condannato, lo si riconosce tra mille, anche con uno sguardo non molto esperto... Nel suo viso si legge il senso dell'isolamento e dell'estraneità, la consapevolezza di essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e di smarrito nello stesso tempo. Qualcosa di simile si può osservare nei tratti di un principe che cammini tra la folla in abiti borghesi.

(Thomas Mann)

Arriva il teatro, arriva la giostra. Quando uno spettacolo di Giancarlo Sepe sta per andare in scena nel suo magico spazio, in quel sottosuolo in costante fermento che è il Teatro La Comunità, nel cuore di Trastevere, mi sale la stessa eccitazione di quando da bambina aspettavo le giostre per il Santo Patrono.

Non so come sarà il nuovo spettacolo, ma so che l’incantamento è assicurato. Non sono mai stata smentita. Lo stand by dalla vita quotidiana è totale e lo è in modo diverso da come accade  o dovrebbe accadere sempre in teatro.

Quello che Sepe ti chiede, implicitamente, con i suoi lavori, è una sospensione del tempo, una sorta di regressione all’infanzia quando giocavi a essere altro da te e un po’ ci credevi. Il tempo imperfetto che cominciava sempre con facciamo finta che io ero e tu eri e in un attimo eccoci lì, in un altro mondo, in un’altra dimensione, più vera del vero.

Allo stesso modo ora, adulta e addestrata al teatro e a non lasciarmi prendere in giro da finte sirene, aspetto la giostra con incantamento e già so che ci monterò sopra perché un giro non me lo nega nessuno. Facciamo che ero sulla ruota panoramica.

Facciamo che lasciavo da parte i pensieri, i fastidi, le ansie, gli ingombri emotivi. Tutto fuori, tutto altrove da questa fragilissima bolla di cristallo che rotola davanti e sotto di me. Fragilissima, perché basta una piuma, un chicco di riso, una nota che arriva più forte, che il meccanismo  potrebbe incepparsi e tu dalla ruota ti potresti improvvisamente ritrovare a teatro. Non è poco ma la giostra è una cosa diversa.

Ecco, questa è la sensazione. Sono salita sulla ruota e sto guardando di sotto. Vedo  una donna e un uomo stesi a terra, nudi, che sembrano prendere il sole. Però si proteggono come se avessero freddo e infatti di lì a poco si vestono, si coprono, si abbracciano. Una scena di serena vita quotidiana, subito interrotta da un elemento impertinente. Il freddo, la paura. La paura che subito si materializza con il rumore di un intruso che bussa alla porta.

Insomma si assiste a una brusca interruzione della normalità: il flusso della vita si arresta e lascia intuire una minaccia incombente. L’istinto è fuggire. Bisogna confondersi, mimetizzarsi, sparire. Cominciamo con lo scambiarci i vestiti, le divise d’ordinanza, i sessi. Confondiamoci. Depistiamo. Oppure riappropriamoci. Si vedrà. Dipende.

È il primo quadro di Femininum Maskulinum, in scena fino al 21 aprile, con una compagnia di dodici interpreti rodatissimi capitanati da Pino Tufillaro nel ruolo di un Thomas Mann che finirà persino per stringere la mano a Hitler.

Sul fondale una scritta che sa di resistenza e di nostalgia: Theater, 1929 – 1936. Perché quello che si vuole raccontare è la sorte degli artisti nella Germania nazista dopo la salita al potere del Führer.

Quando tutto sembra perduto, ridotto in frantumi, le libertà individuali annullate, i diritti elementari soppressi, la vitalità e la bellezza che avevano animato la repubblica di Weimer disprezzate e vilipese da menti piccole e misere, pedine ubbidienti di un progetto diabolico, sono gli artisti, per indole e missione, i veri ribelli capaci di guardare lontano. Sono loro i portatori e gli artefici di un pensiero divergente che cerca di sopravvivere negli anfratti della storia, coltivando piccoli semi da far germogliare non appena i tempi saranno di nuovo maturi. Nei sotterranei e nelle cantine, clandestini e perseguitati, oppure fuggiaschi oltreoceano, in quell’America proibizionista che nella Germania nazista rappresentava la libertà e la salvezza.  

Questo spettacolo è (anche) una poetica immersione nell’America di quegli anni, dove hanno cercato riparo artisti come Billy Wilder e Thomas Mann, al quale avevano revocato la cittadinanza tedesca e la laurea ad honorem: nel 1936, l’anno in cui Heidegger, tesserato nazista e compagno di una filosofa ebrea (Hanna Arendt), tenne la celebre conferenza su Hölderlin. Un pensiero di resistenza che affidava ai poeti la responsabilità di condurci fuori dalla notte del mondo. A che i poeti in un povero tempo?

Questo lavoro pare quasi il tentativo di rispondere a questa domanda, cercando nelle musiche, nei rumori, nei suoni, nei gesti, negli umori che si sciolgono, si condensano e ancora si sciolgono a creare nuove forme, lo spirito del tempo. Il Geist, oltre e attraverso ogni singola Seele. In perfetto stile Sepe, senza assilli filologici e strettamente storiografici, ma con l’autonomia di un artista coltissimo libero di creare e di proporre la sua personale ristrutturazione poetica.

Una ristrutturazione che segue rapsodicamente la vicenda della migrazione in America di Thomas Mann e della  moglie Katia, ebrea, con i loro sei figli ancora piccoli ma che è fatta di tanti microcosmi giustapposti che evocano fatti reali o stati d’animo complessi, contraddittori: gruppi di gente smarrita che cerca qualcosa, ciascuno con i suoi tempi e i suoi pensieri; una scena allegra di mare reso con un semplice telo azzurro e il rumore dell’acqua; coppie che amoreggiano e liti accennate interrotte dal suono forte delle campane; una corsa spasmodica a tempo di mitraglia; la violenza maschile su sollecitanti corpi di donne e il bacio tra militari con tanto di svastica perché l’omosessualità era reato ma l’importante è non far sapere, e  dietro una divisa tutto è possibile.

Scene generate e dirette a produrre quella armoniosa sinestesia che sempre caratterizza gli spettacoli di Sepe, gestualità precisa in fitto dialogo con la musica e i suoni, con le luci, con il processo di vestizione e svestizione dei corpi, nessuna didascalia e pochissime parole di snodo: scene che senza un accordatissimo gruppo di attori in grado di cantare e ballare e incastrare corpi e voci creando e ricreando diorami diversi in movimento costante, non sarebbero possibili.

Ma è questa l’eccellenza di un teatro siffatto: un lavoro a monte che ha del maniacale ma che fa apparire tutto facile, fluido, possibile.  Come un semplice giro di giostra.

(Fino al  21 aprile al Teatro La Comunità)

FEMININUM MASKULINUM uno spettacolo di Giancarlo Sepe/con (in ordine alfabetico) Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli/e con la partecipazione di Pino Tufillaro/musiche Davide Mastrogiovanni | Harmonia Team/scene Carlo De Marino/costumi Lucia Mariani/disegno luci Javier Delle Monache/assistente costumista Isabella Melloni/scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia del Teatro della Pergola/macchinisti realizzatori Duccio Bonechi, Cristiano Caria, Francesco Pangaro, Filippo Papucci/produzione Teatro della Toscana/foto di scena Manuela Giusto

di Alessandra Bernocco