Benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.

Qui ti toccava sentire cosa fa la gente quando si tira giù le braghe o cosa vorrebbe fare quando non può. Voi non avete idea di cosa si nasconde nella gente quando si infila dentro un letto. Oddio, anche fuori a dire il vero. La dipendenza da sesso è una cosa strana, la gente è una cosa strana, il sesso è una cosa strana.

Sul Binario 30 della stazione Termini i treni per le destinazioni che ci stanno più a cuore sono a rischio deragliamento.
Il Binario 30 è uno spazio virtuoso creato dal nulla al civico 159 di via Giolitti, ovvero la prima parallela dei binari ferroviari.
L’idea di rimettere a nuovo uno spazio che non funzionava nemmeno come magazzino, creando dal nulla un polo di arte e cultura, in uno dei  quartieri  liminali della capitale, senz’altro il più multietnico, venne a un’attrice e regista allevata alla Bottega di Vittorio Gassman, Caterina Venturini.
E noi l’abbiamo intervistata.

Tratto dal romanzo La ferocia di Nicola Lagioia (vincitore nel 2015 dei premi Strega e Mondello), l’omonimo spettacolo teatrale della compagnia VicoQuartoMazzini ha debuttato al Teatro Vascello di Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival. La regia è curata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà che ne sono anche interpreti insieme a un valido cast di attori. La drammaturgia è frutto dell’eccelso lavoro di Linda Dalisi che è riuscita a forgiare dalle pagine del complesso romanzo di Lagioia un agile dramma contemporaneo che penetra nelle pieghe di una società avida e corrotta, pronta a qualsiasi crimine, pur di ottenere successo e denaro.

La scena del Teatro Vascello è azzurra, lunare, è di un tribunale abbandonato, con lo scranno del giudice senza il giudice, le carte sono sparpagliate dovunque, ed entra un vento siberiano inquietante, alla Dottor Zivago, che fa da mulinello per tutti quei documenti, c’è un vecchio accasciato su se stesso immerso in un cappotto più vecchio di lui, quasi fosse ormai un barbone inascoltato, e invece si anima e sbraita, e nell’invettiva contro se stesso cita le più belle opere dell’autore, in particolare “Il grande inquisitore”, e quando un grande specchio si apre al centro di quello scantinato archivio, il vecchio si moltiplica, e si vede di spalle e di lato, fiero, finalmente fiero di raccontarsi la verità senza scuse.

Che fine fa l’umano in un contesto storico disumano? Attorno a questa questione, innanzitutto, si sviluppa Il caso Kaufmann, romanzo storico di Giovanni Grasso da cui Piero Maccarinelli ha tratto lo spettacolo omonimo, protagonisti Franco Branciaroli, Viola Graziosi e Graziano Piazza.
Al centro, il rapporto tra un uomo maturo e una giovane donna. A latere, il fatto che l’uomo sia ebreo e la donna ariana. Il romanzo, e di conseguenza lo spettacolo, è lo sguardo inerme che constata che gli accidenti diventano sostanza e che quello che dovrebbe essere corollario, diventa centrale, prepotente, dirimente. Un ebreo non può amare un’ariana, un ariano non può essere amico di un ebreo. Siamo in Germania, un anno prima della promulgazione delle leggi razziali e il clima antisemitico è strisciante.