Educazione sentimentale

Ogni nostra cognizione prencipia da sentimenti

(Leonardo da Vinci)

Basterebbe frequentare i parchi giochi, lì in una manciata di minuti salta agli occhi tutto il concentrato di misoginia, maleducazione, misantropia, solitudine di cui è infarcita la nostra società.

La famosa educazione sentimentale/sessuale la farei fare proprio lì, ma non agli studenti, ben inteso, la farei fare agli adulti di cui quegli studenti sono frutto. Quelli che urlano al patriarcato, che impongono il minuto di silenzio nelle scuole per ricordare le vittime di femminicidio, quelli che le donne non si toccano neanche con un fiore – espressione orribilmente maschilista che puzza di stereotipo – quelli che magari vanno a manifestare il 25 novembre.

Ecco, sono gli stessi che vogliono che i figli sgomitino per farsi spazio a rischio di calpestare i coetanei pur di arrivare al traguardo (la tanto ambita conquista dello scivolo ma risalito al contrario), i quali coetanei tendenzialmente sono femmine perché ai genitori, che mai si direbbero fare distinzione di genere, piace che il figlio maschio sia “vivace” e un po’ prepotente.

foto dal web - bambini tiranni

Sono quelli che la tata deve essere bilingue e quindi gli parla in inglese non per dire “non si salta la fila quando tutti gli altri aspettano”, no, ma per offrirgli invece un premio per essere stati cosi tanto carismatici.

Quelli che se un bambino si avvicina per giocare lo ignorano, perché loro devono giocare solo con i bambini che già conoscono e se non ci sono se ne vanno dicendo “oggi non c’è nessuno”.

Sono quei padri che quando sono al parco hanno sempre il cellulare in mano – perché loro hanno ben altro da fare nella vita che stare li – e che quando i figli crescono e passano tutto il giorno incollati a uno schermo, si arrabbiano e dicono “non potresti leggere un libro?”, ma le loro case sono piene di qualsiasi ritrovato della tecnologia e neanche un libro. E ormai è tardi, la capacità di concentrazione irrimediabilmente compromessa. Come si fa a seguire un film se si sta allo stesso tempo giocando a un videogioco? Ad emozionarsi a un concerto se lo si sta riprendendo con il telefonino?

Secondo la University of Southern California gli adolescenti che utilizzano intensivamente i dispositivi digitali hanno il doppio delle probabilità di sviluppare sintomi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività. E non è un caso se i casi di Adhd sono sempre più numerosi.

Cosa c’entra tutto questo con l’ondata di femminicidi che ha investito il nostro paese?

C’entra, perché benché ci consideriamo evoluti, non lo siamo. Perché finché pensiamo che queste sono cose che accadono solo in periferia, in luoghi dimenticati da Dio e comunque solo agli altri, non ne usciamo. Finché non riconosciamo che la violenza, non per forza fisica, il maschilismo, non per forza ostentato, sono anche nostri, non risolviamo niente.

Non si tratta di colpevolizzare genitori che hanno già il loro bel daffare, e del resto sono sempre di meno ormai, ma di responsabilizzazione. Prendersi carico dell’educazione emotiva senza delegare tutto alla scuola o doposcuola, pagando fior di logopedisti perché a due anni non articolano bene le parole o lo psicologo perché hanno paura del buio. Meglio una bella pizza insieme e parlare, parlare, parlare.

In un’interessante intervista sul Corriere della sera la psicoanalista Vera Slepoj – a proposito del caso di Giulia Cecchettin – afferma che al maschio si chiede sempre di stare nell’azione, e giù sport a più non posso, con agende che neanche un’influencer. Bambini di 4 anni- maschi e femmine- che non hanno un momento libero, non dico per annoiarsi (e dunque riflettere e dunque creare), ma neanche per giocare. E genitori indaffaratissimi, nel loro unico giorno libero, invece di passare del tempo con i figli lo passano nel traffico per accompagnarli di qua e di là.

“Farebbero meglio ad evitare di riempire i figli di attività. Li accompagnano ovunque ma non stanno con loro” suggerisce Slepoj. Perché il tempo dedicato loro, quello si è che è educativo. Per non dover un giorno dire “un alieno gli è entrato nella testa” quando forse è nostro figlio che è diventato alieno per noi.

di Laura Landolfi