Savana Station 

Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana

È da un po’ di minuti che cerco di capire se lì dentro c’è un quarto di gazzella comprato al supermercato oppure un paio di facoceri da cucinare al pepe verde. La signora di fronte a me, col suo gigantesco trolley per la spesa, rivestito in pelle di giraffa e ripieno di chissà cosa, è seduta tra due tipi che potrebbero scambiarsi per rangers, o bracconieri senza fucile, e invece, con la vecchia, non c’entrano proprio nulla. Più in là c’è un tipo strano che tiene allineate sul palmo della mano sinistra alcune monete. Le smuove e le mette in fila, con una logica tutta da interpretare. Ad alta voce va ripetendo: “Ho perso miliardi ma rido sempre. Avevo miliardi, li ho persi tutti, ma a me nessuno mi piega”. Ha veicolato su sé stesso l’attenzione di una parte del vagone. Continua a muovere maniacalmente le monete sulla mano mentre prosegue con la sua moratoria quasi urlata: “La storia la fanno gli uomini tosti e forti, che non si piegano mai. Guardate me, ho perso miliardi ma rido sempre, non mi piego, perché, io, sono un leone, perché, io, so-no un le-o-ne”. C’è una signora che lo guarda fisso negli occhi preparandosi ad uscire alla fermata Policlinico. Lo scruta dall’alto in basso come uno scanner, forse per compatimento, o forse, chissà, perché sorpresa da parole che richiedono elaborazione. Gli sorride. L’uomo le sorride a sua volta, ricambia lo sguardo e si rianima: “Grazie signora, grazie del sorriso. Un sorriso mette sempre gioia. Avete capito? Avete visto che spettacolo? Chi sorride non si piega. Chi sorride rimane sempre un le-o-ne e non si piega mai, un le-o-ne”, per poi lasciarsi andare ad una risata più vicina a quella di una iena. Il leone ostinato scende a Termini, mentre una massa di bipedi e di quadrupedi si riversa copiosa nel vagone con la stessa irruenza di una mandria di gnu che sfugge ad un predatore, preparandosi a calpestare i palcoscenici di ogni giornata: – “Oh, e non spingete, ma manco li bufali, e che cazzo” – Il viaggio prosegue, e anche a questo giro sembra somigliare ad un excursus dentro un teatro dell’assurdo, popolato da esseri quasi mitologici, metà viaggiatori e metà macchiette, personaggi ipnotici, soggiornanti dentro frame di pellicole cinematografiche che proiettano sketch e storielle, partoriscono piccole morali, distribuiscono cazzotti d’ilarità e carezze ai nostri stati d’animo. Dopo aver ceduto il posto ad una simpatica vecchietta con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, mi ritrovo ora in piedi, difronte ad uno dei finestrini del vagone, accanto ad un ragazzo coi capelli rasati quasi a zero e un torace scolpito che fa fatica a star dentro la sua t-shirt nera. Sembra un gorilla beringei appena uscito da un centro benessere. Lo guardo incuriosito per l’abbigliamento, leggero e in contrasto col periodo, visto che siamo a fine febbraio, ma anche con un po’ di invidia e imbarazzo: con quel suo fisico così perfettamente tonico e muscoloso temo il confronto poiché, affiancato al mio, più simile ad una acciuga in salmì, mi costringe all’angoletto per evitare comparazioni impietose. Realizzo che questa specie di primate in t-shirt sta utilizzando l’effetto specchio, che il finestrino gli concede nei transiti in sotterranea, per compiacersi della sua fisicità che guarda ammirato e adulante. Insomma, un fastidioso gorilla Narciso, eccitato davanti alla sua immagine, quasi eroticamente rapito dal riflesso mentre ammicca ai suoi muscoli. Sono tentato di fotografarlo, ma gli sono proprio accanto e non me la sento. Lo osservo facendo finta di guardare altrove mentre con lo sguardo percorre lentamente la linea dei bicipiti e dei pettorali con l’espressione di chi sta facendo l’amore con sé stesso. Mi viene da ridere ma non vorrei darlo troppo a vedere: questo qui, se fosse solo un pochino permaloso, mi accartoccerebbe con la stessa facilità con la quale piegherebbe in due una cannuccia. E i gorilla è meglio lasciarli perdere quando sono irritati, lo sanno pure i leoni. Sono quasi arrivato a meta quando noto un uomo rossiccio in volto, sulla settantina, che sembra addobbato per fare un safari. Una mise da cacciatore color bruno nocciola ed in testa un berretto con parasole, simile a quello usato dalla legione straniera negli spostamenti tra le dune desertiche del Sahara. Non vedo però né moschetti, né fucili da caccia grossa, e nemmeno cartuccere agganciate intorno alla vita. Solo una borraccia a tracolla, appoggiata su una pancia prominente. Il tipo, ignaro degli sguardi ironici e quasi beffeggianti che con quell’abbigliamento attira intorno a sé, continua a parlottare, in inglese e piuttosto divertito, con una signora probabilmente sua coetanea, mentre da lì vicino, proprio nel momento di apertura delle porte, improvviso si solleva un poema pratico e stringato da un maranga divertito che sta uscendo dal vagone – “Oh, anvedi questo. Ma er giaguaro ‘ndo l’hai parcheggiato?” Esco anch’io. Rido e rifletto, pensando che quando affermano che la metropolitana di Roma sia una jungla, in fondo in fondo si sbagliano. E si sbagliano tantissimo. A me pare più una savana.

Mak Barbaro