L’epoca più favorevole per la repressione di un abuso è il giorno in cui lo si scopre.
(Aurélien Scholl)
Ho paura della paura; paura degli spasmi del mio spirito che delira, paura di questa orribile sensazione di incomprensibile terrore. Ho paura delle pareti, dei mobili, degli oggetti familiari che si animano di una specie di vita animale. Ho paura soprattutto del disordine del mio pensiero, della ragione che mi sfugge annebbiata, dispersa da un’angoscia misteriosa
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(Guy de Maupassant)
I fotografi usano la tecnica della “sfocatura” per avvicinare le immagini con la forza del dubbio.
Il termine, usato nel gergo fotografico, deriva da una parola giapponese “boke” che significa anche confusione mentale. Allo stesso modo, con la stessa tecnica del dubbio, dovremmo approcciarci al tema dello stalking e della violenza in genere fra le persone, cioè non necessariamente mettendo a fuoco le azioni in modalità certa, iperdescrittiva, con l’ostinazione per il dettaglio quale mezzo di prova, o al contrario assimilando tutti i comportamenti morbosi come indicativi di un profilo.
Il tentativo è di far risaltare invece, proprio rispetto allo sfondo, quindi al contesto socio-culturale, quel comportamento che, seppure è talmente sfumato da non emergere in chiave analitica, ci appare proprio per “sfocatura” di tipo persecutorio.
Lo stalking è perciò una violenza che è meglio si fotografi non mettendo a fuoco ma “sfocando”.
Consideriamo proprio quello che succede su facebook e come i comportamenti predatori, ossessivo abusanti, facciano capo, specie in quel contesto, a condotte vessatorie mai del tutto cristallizzate o circoscritte. Diremmo, se volessimo approfittare di concetti postmoderni di tipo sociologico, che l’atteggiamento dello stalker su facebook è un atteggiamento del tutto “liquido”. Psicologico manipolatorio, eppure invisibile, che si confonde rispetto al resto, in mezzo agli altri. Lo stalker, il follower insistente, è innanzitutto un guardone, adulatore/denigratore mediatico, ma così come siamo diventati tutti nell’era dei social, e però si caratterizza perché particolarmente opprimente rispetto a una vittima scelta, senza che quella possa inizialmente accorgersene, generando a un certo punto ansia e timori giustificati tali da costringerla a modificare il proprio stile di vita.
Eppure non sempre è facile saper distinguere tra morbosità, cinismo, atteggiamenti maniacali diffusi, cioè diventati oramai ordinari, di tutti, e comportamenti invece che, confondendosi in mezzo agli altri, sono invece del tutto espressivi di una violenza interpersonale tipica, che soltanto usa i nuovi metodi e supporti della comunicazione con effetti devastanti perché esponenziali.
Quella forza comunicativa ansiogena usata nei confronti di un determinato soggetto seguito virtualmente e virtualmente dissacrato è sicuramente di matrice psicologica, ma quella sua ambiguità che non la fa facilmente distinguere dalla comunicazione ansiogena di tutto il contesto, della rete dove si agisce, ne fa un problema anche di natura del tutto sociologica. Come riusciremo a distinguere il comportamento di uno rispetto al comportamento di approvazione di tutti?
Del resto è come ci rappresenteremo la violenza nel futuro che la sentiremo come tale, e quella dei social network sta diventando una rappresentazione collettiva sempre più blanda e soggetta a banalizzazioni. E allora sarà sempre più difficile riconoscere le vittime quando tutti saremo diventati persecutori “sostenibili”. Come è già difficile superare il pregiudizio che lo stalking sia maschile. È in realtà una violenza di tipo relazionale, schermata nel contesto virtuale dove non si è del tutto riconoscibili, e d’altra parte costantemente esposti, e dove si millanta il dominio di sé con effetti puramente dimostrativi, ritrovandosi spesso invece fin troppo vulnerabili ad aggressioni il cui potere demolitorio, oltre che imprevedibile, finisce per assumere dimensioni tali quando ormai è fin troppo tardi.
“Fai di internet un posto migliore” dice uno spot del Consiglio d’Europa contro l’odio dilagante sui social e la minaccia ai diritti umani e alla coesione sociale, segnalando che tra le vittime spiccano spesso in particolare le donne.
Il comportamento virtuale di ognuno alimenta, oppure no, la comunicazione violenta comune stabilendo anche il significato che le diamo, e ciò oltre il profilo più o meno patologico soltanto di qualcuno. Dovremmo allora cominciare a capire che presto sarà davvero difficile distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale, dove i social network si attesteranno sempre di più come moltiplicatori di umori, frustrazioni e rabbia, invece che di stati d’animo ed emozioni positivi.
Chiara Merlo