L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo, la differenza tra me e i surrealisti sta nel fatto che io surrealista lo sono davvero (Salvador Dalì)
Trovarsi altrove, galleggiando in un tempo e in uno spazio surreali, molli, teneri, come nei nostri sogni, dove la consistenza solida, geometrica, è solo per singoli oggetti simbolici pensati a lungo fortemente nella nostra mente. Per il resto, perdere la propria forma, alterata in un altro stato fisico, in un paesaggio liquido immerso nel nostro inconscio, come in uno specchio opaco che riflette soltanto gli effetti cromatici del nostro essere, seppure nel campo di quegli oggetti. Sullo sfondo una moltitudine di formiche che ci inquietano. Questi sono i quadri di Dalì.
E per ogni quadro di questa visione, l’aragosta, gli orologi che scivolano via, il cavalletto con una tela, ritornano preminenti anche in questo teatro.
Lo spettacolo Il ritorno di Dalì, andato in scena mercoledì 11 maggio al teatro Porta Portese di Roma, è stato scritto, diretto e interpretato da Demian Antonio Aprea, accompagnato al violoncello da Gabriele Fioritti. E così quella poetica è ritornata suggestiva.
Entra in scena con una giacca da camera e si siede a pensare. Un tavolino riempito di oggetti è a lato. Poi il violoncello, con quel suo corpo sinuoso alla Man Ray (e l’arte si mischia in forma eidetica in chi osserva, al fine di percepirne ogni suo movimento che è atemporale).
Dalì ricorda i tempi dell’Accademia di Madrid, da cui era stato cacciato all’età di 20 anni, da lì il confronto aspro con altri pittori e personaggi del suo tempo, gli amici Garcia Lorca e Bunuel, gli artisti Breton, e Picasso, e poi Freud e Hitler. Fino a voler restare magnificamente da solo. Ma poi ricorda l’incontro con Gala Éluard.
Gala era la moglie del poeta Paul Éluard, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista. Quando andò in visita, con suo marito e altri amici artisti, nella tenuta di Dalì presso Cadaqués nel sud della Spagna, tra i due si scatenò subito una irresistibile attrazione. Gala così lasciò Éluard e si mise con Dalì e rimase con lui per ben 53 anni, in un rapporto d’amore, di sesso, di creatività, e anche di eccessi.
Subito dopo questo incontro, Dalì dipinse “il grande masturbatore”, un manifesto ancora per i nostri giorni, un’opera delirante e seduttiva, carica di intensità e genio. Ripetere ossessivamente azioni per eccitarne continuamente la causa, stimolare la propria mente eccessivamente fino a saturarla attraverso l’oggetto del desiderio, avere il senso non percepito, evanescente, ma pensato, assillante, del piacere. Il quadro è immobile. Al centro un volto enorme rivolto verso il basso con gli occhi chiusi, sopra una cavalletta, e quel volto travolto, affondato nell’intorno, insabbiato al centro di proiezioni di non troppo celati simboli fallici, subliminali, messi in quella scena, sono assediati dalle formiche che sono il movimento vero, l’anima, di quel contesto sessuale sociale.
Preservativi usati sul palcoscenico, dopo dimostrazioni autoerotiche di quello stesso piacere intellettuale, folle.
Il tentativo di Demian è quello di far ritornare quel genio in un orgasmo, far ritornare quello spirito creativo che spinga fuori dalla realtà per impulsi ricercati, in modo ironico e intelligente, provocatorio e dissacrante, far ritornare allo stesso tempo quello stupore mistico che altera e ingigantisce, o rimpicciolisce, stati emotivi e umori, quell’anarchismo che non ha necessità neanche di porsi a contrasto rispetto al nazismo, perché lo supera cogliendone semplicemente l’irrazionale.
Lo spettacolo ha questa intenzione bella di recupero dell’immaginativo, e anche il testo è ben strutturato in questa direzione. L’interpretazione dimostra tutto l’amore verso Dalì e così il disgusto per la mediocrità. Un lavoro di sentimento e di gratitudine, evidentemente per il proprio percorso artistico rivolto, che è stato apprezzato proprio per questa sua evidente causa-azione.
Visto al Teatro Porta Portese, sarà ancora al Teatro Betti, venerdì 27 maggio.
Foto di scena di Alessandra Antonini.