C’è Facebook dopo la morte tra finzioni e algoritmi

È un dialogo, non un monologo, e alcune persone non lo capiscono. I social media sono più come un telefono che come una televisione.
(Amy Jo Martin)

Non importa quanti amici abbiate su Facebook o quanti follower su Twitter; non sono amici reali né veri fan. A contare sono le persone che sentiranno la vostra mancanza se domani non ci sarete più.
(Seth Godin)

Non sono mai riuscita a risolvere del tutto l’enigma di questa frase di Nicola Abbagnano, che pure mi ha sempre intrappolata in una magnetica quanto mai misteriosa attrazione del pensiero: “l’esistenza appare come un esistere dal niente“. Poi però è arrivato Facebook, e allora, forse, ho capito meglio. “L’esistenza appare…

C’è da premettere che a margine di questa frase, del tutto incognita e teoretica, ho sempre creduto “profondamente” nella teoria del multiverso, cioè in un insieme di universi paralleli dell’esistenza di ognuno, sconosciuti fra di loro e tuttavia comunicanti. Così, quando è morto il mio carissimo amico Franco, appassionato come me dei social network, ho messo insieme questi significati e sono sopraggiunta a una prima intuizione nella soluzione di quel simbolico. E a un tratto c’ho trovato tutto il suo peso sociologico e culturale. Franco (questo è il suo vero nome) si nascondeva dietro tantissimi fake che adesso viaggiano in mezzo a noi proiettando quella sua vita, non solo virtuale, in qualche modo in un continuum.

La verità è che, anche per chi non credesse in Dio, e Franco non credeva nell’al di là, forse c’è un modo del tutto nuovo e narrativo per rimanere eternamente nell’al di qua. O forse c’è sempre stato, soltanto che adesso ha semplicemente cambiato il suo supporto. Non più lapidi ed epitaffi, scritti e libri, ma stati d’animo (post)mediatici e bacheche (diari personali) sempre più dinamiche dove incontrarsi anche dopo morti.

Dei morti certo ci si ricorda spesso più volentieri che dei vivi, questa è una mia certezza. I morti sono catartici, e noi italiani in particolare siamo dei necrofili, non ci libereremo mai del vecchio, tanto meno del definitivamente “spento”. A noi proprio piace ragionare sulle rovine e sui cimiteri, anche letterari. Così, adesso che possiamo anche “aggiustare” la vita dei nostri prossimi a nostro piacimento, “pubblicamente” senza riceverne reclami, abbiamo trovato il modo per ribadirci reciprocamente, all’infinito. Intendiamoci, è così in tutto il mondo, ma noi, ripeto, ci proviamo più gusto, un gusto del tutto particolare e culturale. Noi siamo rievocativi fin dall’antica Grecia. Basterà ricevere una sorta di “testamento” alla narrazione e sarà fatta. Ma anche senza! Basterà sovrapporci in qualche modo a quel “profilo”, di chi non c’è più, pur di continuare a interpretare e a interpretarci. Tanto da noi le regole sono e sempre resteranno relative come la morte. Finanche quelle etiche. E devo dirvi che a me sta bene. Ho sempre pensato che la mia vita (e quindi anche la mia morte) appartenesse agli altri, ché senza gli altri non sarebbe e non sarebbe stata proprio niente. Non mi farà specie perciò essere per sempre impressioni e frammenti, immagini lasciate. Sarà “…come un esistere dal niente“!

Perché, a parte questo abuso del ricordo più o meno sopportabile, ognuno di noi, in qualche modo, aspira anche a essere immortale, eventualmente anche lungo il percorso tortuoso delle condivisioni ultramediatiche.  Anche ove quell’immortalità ci fermasse inesorabilmente soltanto in un’emozione altrui. Noi siamo le emozioni che abbiamo “provocato”.

C’è da dire che coi social network la possibilità, anche in merito, sarà sempre del confronto, se non del conflitto, e su come siamo stati per gli altri in contro-verso (e l’idea del contraddittorio anche su come ho rappresentato la mia vita su un social network mi tranquillizza). Il guaio è che, se sono gli altri a trattenerci e a gestirci in uno o più profili (a dimostrare che anche Pirandello è diventato, pure lui dopo morto, un autore postmediatico 3.0, nemesi delle sue intuizioni), tutta l’esistenza che ne rimane è tutto ciò che solamente è agli altri, e, come dicevo (o meglio, come credo di avere intuito dalla frase di Abbagnano): tutto ciò che sono e sono stata, e che sarò, è esattamente “come appare”. Un “esistere dal niente”.

Di sicuro neanche Franco avrebbe sperato tanto, di moltiplicarsi inconsapevolmente nel virtuale, eppure quel suo linguaggio che ci attraversa, come attraversa subdolamente anche questo articolo, fa del suo racconto collettivo un “suo” e anche un “nostro” multiverso, delle sue “finzioni” degli algo-ritmi.

Chiara Merlo

Gianna Paola Scaffidi