Nello spettacolo, prodotto da Nexus Factory, Tempo Reale ed EstOvest Festival, si innestano suoi materiali diversi: le composizioni di Berio Visage, per suoni elettronici e la voce di Cathy Berberian su nastro magnetico (1961), Les mots sont allés…, “recitativo” per violoncello (1976 – 78), Sequenza XIV, per violoncello (2002) e I colori della luce (1963), presentate in esecuzioni esclusive autorizzate dagli eredi del compositore; Visioni su “Visage”, in cui Roberto Masotti e Silvia Lelli interpretano visualmente Visage (montaggio di Gianluca Lo Presti/Mammafotogramma) e i rari video di Bruno Munari e Marcello Piccardo.

Occorre tutta la nostra buona volontà e forza d’animo per potere vivere e lavorare in una realtà in così veloce trasformazione, e anche coraggio. Una qualità che l’umano contemporaneo pare abbia perduto, reminiscenza di ricordi lontani quando si moriva per una fede. Ora siamo incerti e spaventati, confusi su quale direzione prendere, a chi dare retta, presi tra evoluzione tecnologica ed empatia, conservatorismo e progressismo, destra e sinistra, idealismi e necessità. La convenienza a cui un certo progresso ci ha abituato, ha spazzato via ogni resistenza, ogni capacità di opporsi, di lottare.

Questo sono i sogni: stanze vuote comunicanti. E quando l’infrangersi della fiducia nella realtà crea ombre, solo i cristalli di luce surreali dei bicchieri rotti, delle gocce di pioggia o delle lacrime, l’apertura di una porta verso l’interno, nel buio, per fare entrare la lampadina del corridoio, o la luce del sole dalle fessure delle tapparelle, con le pareti a strisce e il pavimento occupato dai dettagli a pezzetti, il giallo acceso di una lampada lungo un letto sperduto, o una scrivania invasa, che si allunga per gli spigoli sui soffitti, solo questi sprazzi di immaginifico possono riportarci all’interno del tutto, e sopra le cose di tutti i giorni. È come leggere, o scrivere, quando diventa necessario, essenziale, per singole parole sopraggiunte. Intravedendo. Sospettando. Inventando.
L’invito è a leggere. E io aggiungo: a scrivere!

Già soltanto il titolo. Femminaccie impudentissime. Chi può non sentirsi attratto da un simile titolo su una copertina che riproduce la caricatura di una femmina agghindata fine ottocento che impugna una pistola? Bel contrappasso nei confronti di colui che senza ombra di ironia apostrofò così le infermiere volontarie che prestavano soccorso ai soldati feriti durante i due eroici anni della Repubblica Romana.
Colui è Giuseppe Boero, gesuita, bontà sua, e il libro in questione è il risultato di una meticolosa e certosina ricerca condotta da Cinzia Dal Maso, giornalista e scrittrice, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Internazionale di Studi Giuseppe Garibaldi.

Eppure, se solo sapessimo veramente che le cose brutte della nostra vita le racconta il teatro, e che ci difende nel raccontarle! Il teatro è onesto intellettualmente sennò muore, parla alla comunità per far comprendere, parla “a noi tutti” come dice Eduardo per i nostri figli. E solo se si prova il dolore degli altri si comprende veramente il proprio. Il teatro permette questo: ri-presentare (rappresentare) a se stessi il dolore per la vita, com’è.

Un po’ è anche questo il senso di questo spettacolo: suggerire un modo indolore per stare dentro la gabbia che l’esistenza riserva a ognuno di noi. Ognuno ha la sua: più o meno dorata, più o meno confortevole, più o meno trasparente. E l’ironia strappata al dolore, la risata sommessa che l’attrice ha più volte innescato, è la rete che ci salva attraverso le sbarre. Avercela.

Regia di Barrie Kosky con i Berliner Ensemble
Assistendo a L’opera da tre soldi con i Berliner Ensemble diretti da Barrie Kosky, al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival, forse l’ospitalità più attesa, vero asso nella manica di questa edizione 2022, si ha l’impressione forte di essere di fronte a un teatro con una marcia ‘alternativa’, non direi una marcia in più, ma una marcia radicalmente diversa dal modo, anzi dai modi, in cui procede il teatro nelle pur varie e variabili forme a cui siamo consueti.

“La prima cosa che mi viene da dire è che questo giallo ha tutte le caratteristiche di un romanzo vero e proprio. Nel senso che all’intreccio tipico del genere giallo si aggiunge molto altro. Anzi: direi che il giallo è, per l’autrice, Loretta Cavallaro, occasione per veicolare questioni di grande peso che le stanno chiaramente a cuore”.