Allontanarsi dalla linea gialla

La mia cultura è stata la mia rovina. Quando gli ignoranti hanno un po’ di potere, sanno che li può fregare solo chi ha studiato più di loro. Si portano dietro un complesso di inferiorità e vagano come bestie ferite, colpendo con rabbia. Gli ignoranti al potere sono arroganti e aggressivi. La cultura è il nemico, è il diavolo, può aprire gli occhi alla gente e descrivere la realtà in un modo diverso da come loro la vogliono presentare. E allora va combattuta. In modo brutale, senza riserve
(Loretta Cavallaro, Allontanarsi dalla linea gialla)

La prima cosa che mi viene da dire è che questo giallo ha tutte le caratteristiche di un romanzo vero e proprio. Nel senso che all’intreccio tipico del genere giallo si aggiunge molto altro. Anzi: direi che il giallo è, per l’autrice, Loretta Cavallaro, occasione per veicolare questioni di grande peso che le stanno chiaramente a cuore.

Non mi piace abusare del termine ‘urgenza’ ma in Allontanarsi dalla linea gialla (edizioni L’erudita di Giulio Perrone editore), è proprio quello che ravviso: l’urgenza di dire, di prendere parte, schierandosi apertamente a favore di un mondo di ‘invisibili’ che scorre accanto a quello sgargiante e chiassoso degli altri, variamente identificati. Invisibili sommersi sotto cumuli di miseria, confusi nell’incuria di una stazione, nascosti sotto coperte sudice e cartoni bagnati.

Eppure tra questi invisibili senza protezione, senza nome e senza età, anche senza memoria, c’è qualcuno che vede, qualcuno che sa guardare lontano, qualcuno che si sofferma provando a illuminare un dettaglio nascosto sotto strati e strati di sporcizia, catturando l’istantanea in un volto bambino che fa capolino dietro una colonna, o inseguendo il passo pesante di una donna che sale le scale. C’è qualcuno abituato a pensare, a immaginare, a inventare storie e costruire castelli partendo da un solo mattone.

Qualcuno che vede pur avendo perso di vista se stesso. Non si sa come, non si sa da quanto tempo, non si svela completamente nemmeno alla fine. Ma è la voce di questo romanzo: femminile, acutissima, ironica, spietata e precisissima nel restituire quello che vede e quello che sa, che è molto, moltissimo, nonostante non si ricordi nemmeno chi sia. Una voce nella quale probabilmente l’autrice riversa se stessa, a cui presta non soltanto le sue idee ma la sua forza e la sua fragilità, la sua capacità di assestarsi, di trovare una quadra e non percepirsi straniera in nuove zone di confine, il suo senso del decoro, la sua dignità, la sua attitudine a ‘non starci’, la sua solidissima idea di giustizia e quindi il suo dissenso nei confronti di un mondo che non ce la fa a digerire.

Il mondo dei più che visibili, degli ostentati, griffati, stellati, di quelli ben in vista che dai treni salgono e scendono alla volta di lavori puliti o diversamente puliti, di chi siede dietro una scrivania incollato al monitor di un computer senza guardare in faccia chi gli rivolge una domanda o gli chiede un aiuto, di chi batte scontrini alla cassa di un bar e ha imparato a ignorare chi non si adegua.

Da una parte gli interi, dall’altra i rotti, rottamati in mille pezzi che rotolano via o vengono inghiottiti da un tombino senza che nessuno si accorga che esistono, o peggio ancora, finga di non accorgersi.

Ecco, di fronte a questa partizione fin troppo facile dell’umanità, metaforicamente resa dal degrado di una stazione, tra scarti stanziali e viavai di passeggeri, l’autrice non ci sta. Non è vero che ci sono solo due mondi, irreversibilmente distinti, stagnanti nella loro incomunicabilità. C’è anche qualche pezzo dell’uno e dell’altro che ha imparato a migrare, che è disposto a ‘corrompersi’, a conoscersi e riconoscersi nell’altro, non il diverso da sé ma il sé nell’altro da sé, nessuno escluso.

Fino a ritrovare se stessa riflessa in una vetrina e riconoscersi a stento, lei e le sue voragini, lei e la sua perturbante incertezza. Una sé stessa diversa, svilita, sporca e, soprattutto, dimentica di sé e del proprio passato, precipitato in un piccolo trolley da cui non si riesce a separare. Un passato che non capiamo se remoto, prossimo o nascosto dietro l’angolo, confortevole e rassicurante, pronto ad aspettarla a due passi da lì. Basterebbe soltanto saperlo.  

Perché in questa voce narrante confluisce il prima e il poi, il dentro e il fuori, un mondo e l’altro, la memoria che non c’è più ma che a sprazzi riaffiora, sconnessa, innescata da sogni, dettagli, sapori, automatismi ascrivibili a un imprinting che non si addice al presente e che dà le sue avvisaglie migliori nella propensione all’ascolto e al racconto, pieno di invenzione e di magia.

Un ragazzino afghano, minore, clandestino, è il suo primo referente, il destinatario eletto in mezzo all’umanità residuale che bivacca in stazione. Ha raggiunto la capitale con mezzi di fortuna e fortunosamente resiste perché tutto gli manca tranne la capacità di sognare e immaginare un domani migliore. Ramal è l’altro protagonista del libro, colui che alla nostra ha dato il nome di Rosa e che con lei condivide segreti e ricordi affidati alle pagine di un quaderno di scuola.

Ma Ramal è anche l’occasione per cui questo libro assume propriamente le caratteristiche di un giallo e acquista un andamento sincopato, che nonostante i flashback procede veloce proiettato in avanti, alimentando l’attesa. La sparizione di Ramal e con lui dei suoi amici che ne spartivano la sorte, è il momento in cui la ricerca di Rosa, da ricerca di sé nei recessi dell’anima e della memoria, diventa fattiva ricerca dell’altro. Una ricerca che mette in moto i due mondi, al di qua e al di là della linea gialla, perché per ridare voce e volto a un invisibile, a maggior ragione se bambino, a maggior ragione se pieno di bellezza, di sogni e di intelligenza, tutto è concesso.

Nella ricerca di Ramal entrano in gioco gli altri personaggi che da laterali o solo annunciati prendono corpo: confermando o contraddicendo appartenenze che poco hanno a che fare con la linea gialla di una stazione. Siamo fluidi e in quanto fluidi abbiamo la possibilità di mutare e trasmutare, spostarci, migrare, travasare il nostro tempo e sospendere le nostre certezze, sommergere con una sonora risata differenze che viste da fuori potrebbero sembrare incolmabili: abbiamo la possibilità di interrompere le nostre solitudini ed è una possibilità da cogliere al volo, perché si sa, i treni passano, anche quelli di chi resta fermo a guardare.

Non c’è una vera e propria morale, meno che mai l’intento di dare una lezioncina, ma c’è quell’urgenza di dire e di prendere parte di cui ho accennato, che è fortemente etica. E va verso appartenenze ideali, affinità di vedute, complicità di intenti che si fanno strada man mano, nello squallore di una stazione, su una panchina fredda di pietra, in una borsa che contiene abiti puliti o nel cibo caldo da condividere. Persino nell’anonimato di un ufficio di polizia, perché chi la dura la vince o, almeno, ci prova.

L’autrice fa bene a dire la sua, tra le righe e attraverso le righe: riflessioni maturate ed elaborate nel tempo, acquisizioni sue proprie e prese d’atto di tante storture sdoganate dal pensiero comune che si inseriscono nel plot per bocca dei personaggi, positivi e negativi, che non sono certo tutti bianchi o tutti neri, immuni da cadute e incapaci di riscatto, ma vibrano di vita, che è anche rabbia e nervi scoperti, pregiudizi e lungimiranza, cinismo e arrendevolezza, e una grande sensibilità dove meno te l’aspetti, manifestata senza troppe parole, senza cerimonie e smancerie ma con sconfinato buon senso.

È attraverso le azioni semplici e buone di una donna dell’est, emigrata per fare la badante, il suo linguaggio diretto, la sua gentilezza ruspante, che arriva la difesa di un rapporto pacificato e leale con la realtà, che non è certo esaltante, ma nemmeno così ostile da impedirle di essere attenta. Una delle figure più commuoventi del romanzo, che si eleva sulle brutture del mondo con tutto il carico del suo corpo pesante e poi le sommerge con una contagiosa risata. 

Alessandra Bernocco