Conta che passa la pazza

È difficile dimenticare qualcuno che ti ha dato molto da ricordare
(John Green)

Un atto unico di e con Irma Ciaramella

Regia Francesco Maria Cordella

A fine spettacolo Irma Ciaramella avverte il pubblico che la dedica è al padre, probabilmente scomparso dopo la malattia di Alzheimer.

Non so da quanto tempo né ho voluto domandarglielo. È però chiaro che Conta che passa la pazza, atto unico presentato al Teatro di Porta Portese il 4, 5 e 6 novembre 2022, nasce da una necessità molto forte, un grido di dolore compresso che ha cercato nel teatro, forma artistica a lei più consona, il canale per liberarsi. Che non significa prendere le distanze dalla malattia ma tuffarcisi dentro, disporsi al ‘contagio’ per meglio comprenderla, farsene carico anche dopo la morte. Significa avvicinarsi, prendere confidenza, accarezzare il demòne che ti tormenta per provare ad addomesticarlo. Solo in un’ottica di accettazione puoi finalmente essere libero, solo accogliendo il vuoto dell’altro e facendolo tuo, lo puoi ricordare e riempire di te. È qualcosa di più dell’elaborazione del lutto, qualcosa che va oltre il dolore e l’umanissimo bisogno di ricominciare, dimenticando, se è il caso, quello che ci ha fatto soffrire. Ma l’operazione è dura e mai esaurita. È un percorso fatto di slanci e di resistenze, una lotta estenuante che la parte più combattiva di te mette in atto contro quella più fragile. E tu tifi per una ma vuoi proteggere l’altra.

Su questo filo sottile si muove il lavoro di Irma Ciaramella, che ha fatto ricorso con sicura sapienza di attrice alle tante risorse che il teatro ci offre.

Il risultato si vale della regia di Francesco Maria Cordella ed è un funambolico gioco di equilibri sia per l’attore sia per lo spettatore, chiamato fin dall’inizio a sintonizzarsi su una cifra surreale e a tratti grottesca: cifra scelta probabilmente  per non lasciarsi travolgere, che l’attrice gestisce con una gran bella efficacia, risparmiandoci affondi pseudo-strasberghiani e  tenendo a bada sterili virtuosismi.

Perché i virtuosismi ci sono, eccome, ma funzionali all’operazione. Per dare voce alla dispersione, si è dispersa lei stessa, fragile cellula che geme, canta, fa risuonare pezzi di vita con voce metallica, dentro una corazza che più che proteggere, isola. Oltre la gabbia, il mondo non gira o gira al contrario, le stelle invocate per indicare la strada oscurano la rotta e annebbiano lo sguardo. Gli interlocutori assumono forme improprie, inanimate e bizzarre -una caffettiera, una caccavella napoletana, un coperchio, raccolti dalle acque del Tevere e del Nilo (sic) -, e intralciano i ricordi emettendo suoni molesti. Dentro la gabbia il meccanismo è inceppato. “Non ricordo se sono scappata, non so da dove e dove devo andare”. Gli altri chi sono? Dove sono, esistono o sono un’allucinazione nel vuoto della mente? “Non ricordo se qualcuno mi ha voluto bene o se sono stata felice”. Forse un figlio ce l’aveva, forse si chiamava Kevin o forse no. Perché mai avrebbe dovuto chiamarsi Kevin, suo figlio, che è molto meglio Diego? Eh sì, Diego. Come Maradona? Forse sì ma non si dice. Si lascia intuire con quella calata napoletana che ci soccorre e consola, provando a sciogliere in una risata il groppo in gola.

Un po’ è anche questo il senso di questo spettacolo: suggerire un modo indolore per  stare dentro la gabbia che l’esistenza riserva a ognuno di noi. Ognuno ha la sua: più o meno dorata, più o meno confortevole, più o meno trasparente. E l’ironia strappata al dolore, la risata sommessa che l’attrice ha più volte innescato, è la rete che ci salva attraverso le sbarre. Avercela.

Conta che passa la pazza

Testo e interpretazione: Irma Ciaramella

Regia, allestimento scenico, luci e musica: Francesco Maria Cordella

Assistenti alla regia: Assunta Pariante e Ottavia Orticello

Produzione: ACTS Theater

Foto di scena: Pino Le Pera

di Alessandra Bernocco