Il regista ha immaginato un’attrice abbandonata, ormai da troppo tempo alle sorti del suo palcoscenico, il vestito è di famose tragedie romantiche, scucito e consunto, tenta di sedurre il suo pubblico come fa un venditore, esprimendo assai spesso inchini e gesti di ringraziamento. Di fronte a lei un avventore, mal vestito, cinico e diffidente, un potenziale cliente, uno spettatore, un casuale, occasionale passante, dall’aspetto un po’ rozzo, ma dal sentire molto contemporaneo e struggente. Un irriducibile viandante solitario del nostro tempo. Un camminatore che vuole camminare lontano dalle folle consumistiche.

Lo spettacolo di Demian Aprea ha questa intenzione bella di recupero dell’immaginativo, e anche il testo è ben strutturato in questa direzione. L’interpretazione dimostra tutto l’amore verso Dalì e così il disgusto per la mediocrità. Un lavoro di sentimento e di gratitudine, evidentemente per il proprio percorso artistico rivolto, che è stato apprezzato proprio per questa sua evidente causa-azione.

E siamo ormai a questo punto, ben dentro nella terza guerra mondiale! Sia o non sia termonucleare. Il nucleare è solo un supporto, è il pensiero del conflitto che è purtroppo avanzato (in risposta a quelli che dicono: “ci sono altre guerre, ci sono sempre state, soltanto adesso ve ne siete accorti?”), si è spostato al centro, è finalmente frontale, aperto, chiaro e netto, con i bersagli non più laterali e solo di avvertimento (nonostante il tragico e l’indifferente), ma nel cuore delle culture dominanti, a ristabilirne i confini ideologici (davvero pensavate che le ideologie fossero crollate?), anche se gli Europei in particolare non vogliono proprio accettarlo. Non vogliono vedere. Che struzzi! E invece si tratta proprio di loro, che lo accettino!