Approfittare di minori non è soltanto bunga bunga

La morte è il fondo scuro che serve a uno specchio se vogliamo vedere qualcosa.

(Saul Bellow)

Il rispetto è per qualsiasi morto, il lutto no. Parto da questa frase di Edoardo Erba intercettata su Instagram, che condivido, ci mancherebbe.

Ma siccome il lutto non è per tutti, non può e non deve, la reazione di chi si ritrova ad assistere a sì tanta beatificazione senza condividerne la benché minima ragione, è logica, necessaria, fisiologica. E con essa il rischio di essere inopportuni, impazienti, impulsivi, e quindi anche irrispettosi, di contravvenire insomma alla buona creanza che sempre si impone davanti al corpo ancora caldo di un morto. È una questione di equilibri.

Se da una parte si eccede, dall’altra ci si incazza. Se da una parte si costruisce il santino e lo si omaggia con i crismi di un santo, dall’altra si rischia Piazzale Loreto.  Due fronti opposti. Pro e contro. Amore e odio. Tertium non datur. Perché in quel mezzo dove dovrebbe esserci il giusto, c’è, alla meglio, la diplomazia, il politicamente corretto, il post-democristiano, se non,  paro paro, l’ipocrisia. Le lacrime finte e appiccicose: non quelle piene di gratitudine di Feltri (Vittorio) che con la voce rotta dal pianto ricordava quanto il cavaliere lo avesse arricchito.

Credevo che il più si sapesse e che i due schieramenti – pro e contro – fossero consequenziali e immediati. Lutto sì lutto no. Funerale di Stato sì funerale di Stato no. Le ragioni degli uni e le ragioni degli altri si sanno.

Il grande imprenditore che si è fatto da solo e ha fatto la fortuna di una buona parte del nostro Paese, il simpatico, il generoso, quello che se sei ammaestrato a questuare come si deve, magari povero malato e bisognoso di cure costose, se sai umiliarti e prostrarti di fronte al benefattore, era anche capace di staccarti un assegno, detto fatto, con gli occhi lucidi. Colui che mandava il cesto natalizio ai (prevalentemente alle) dipendenti dei suoi grandi magazzini, le mandava in gita e in villeggiatura, il liberista senza riserve che permetteva ai suoi selezionati direttori di giornali di fare un po’ il cavolo che volevano.

Oppure. Oppure non sto qui a ripeterlo. Anche perché in molti casi ‘il fatto non sussiste’ quindi tanto vale.

Però mi ricordo la sua ultima gaffe (gaffe?), mica per niente: ero morta dal ridere. Quella del “pullman di troie” promesso ai giocatori della sua squadra di pallone. Qualcosa come sei mesi fa. Morta dal ridere. Così, di primo acchito. Di secondo invece mi era uscito il Joker: di fronte alla risatina degli astanti – calciatori e maestranze -, risatina compiacente molto più che basita. Quasi complice, contagiata. Il contagio. Il virus. I voti.

La compiacenza strisciante degli adulatori di turno: con o senza tornaconto. Sì, anche senza. Di chi si appaga, semplicemente, di un desiderio: essere lui, o, almeno, provarci.

Provare ad assomigliargli, approssimandosi con una risata, una stretta di mano, una strizzata d’occhio. E se non ti riesce nemmeno quello, ti basta sostenerlo, difenderlo, amarlo. Ti basta votarlo o averlo votato. Ti basta aver contribuito anche tu alla gloria del tuo super ego burlone.

Ora però  mi piacerebbe far sapere una cosa, non così nota come dovrebbe. Mi piacerebbe che la schiera degli adoranti afflitti per questa straziante dipartita che sembra averli colti di sorpresa, si informasse sulle origini della sua immensa fortuna.

Quelle remote, prima di Arcore, di Milano 2 e di tutto quello che ne è seguito. Prima.

Per questo vi prego di leggere fino in fondo l’intervista che Beatrice Rangoni Machiavelli rilasciò a Cronache Italiane.

Non mi piace dividere l’umanità in buoni e cattivi, innanzitutto perché nel caso non saprei da che parte collocarmi, anzi mi piacerebbe sapere da che parte si colloca chi è in grado di farlo, ma le azioni sì, possono essere perfide e demoniache e quindi anche meritevoli di essere conosciute.

Perché approfittare di minori non è soltanto il bunga bunga.

Vero è che il bello è brutto e il brutto è bello, dicevano le streghe. Ma questa è un’altra storia. 

di Alessandra Bernocco