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“Nel tennis, chiedere scusa, dovrebbe essere considerato contro il regolamento” (J. p. Mc.Enroe)

Piove zafferano, da ore. Questo, cambia non poco la percezione delle cose. La nuvola rossastra che avvolge la città almeno fino alla bretella di San Conversano, sembra pioggia acida e invece è solo lo stabilimento dei fratelli Zanatta che è saltato in aria dopo un incendio a causa di un guasto elettrico e che produce il famosissimo Zafferano Zanatta, tre euro al grammo. Roba che sul mercato sta appena sotto il platino. Un tizio alla televisione rassicura sulla scarsa tossicità dello zafferano, ma, mette in guardia sul reale rischio di un aumento esponenziale del numero di risotti nei prossimi dieci anni, con tutti i rischi del caso, colesterolo compreso. Le autorità hanno deciso di evacuare la città, vedo una fila ininterrotta di macchine che sfila lentamente verso la campagna e le città più vicine dove stanno allestendo centri di accoglienza improvvisati in scuole, palestre e campi sportivi. Il sindaco, ha chiesto lo stato di calamità innaturale, l’intervento dell’esercito e sedici milioni di piatti e forchette di plastica biodegradabili. Insomma, dodicimila persone in fuga. In strada ci sono solo impronte di scarpe e di copertoni su un manto di velluto rosso, lungo chilometri. Sembra Pompei. Una cipria impalpabile entra senza sforzo dagli interstizi delle finestre chiuse, sotto le porte, nelle grate degli aeratori, arrivando al naso e viaggiando fino ai polmoni intasando gli alveoli, togliendo il respiro e seccando la gola. Attraverso il parco con un fazzoletto davanti alla bocca, su una panchina ci sono due ragazzi abbracciati, sembrano non essersi accorti di niente: beati loro, penso. Dopo cento metri trovo la statua purpurea della signora Laudisio con annesso carrello della spesa, proprio davanti al parcheggio del centro commerciale. Dal fitto strato di zafferano pietrificato che la imprigiona, vedo solo i suoi occhi fissi e terrorizzati. Due lacrime le scendono verso i lati della bocca prima di seccarsi sulle guance rosse e terrose. Da qualche parte, dentro quel sarcofago porpora, una voce dice che non trova l’euro per il carrello. Gliene lascio uno sul palmo della mano e le auguro buona fortuna. Ti chiamo da una cabina. Soffio la polvere dai tasti e lascio impronte digitali su ogni numero. Dopo il «Pronto» quasi senza respiro ti dico qualcosa che comincia con: «Mi dispiace» e va avanti per un po’. La tua voce ovattata risponde qualcosa, frignando, coperta da una sirena dei vigili del fuoco. Da fuori, dovreste vedere la cabina telefonica coperta da mezzo metro di zafferano. Dovreste vedermi anche muovere la bocca e gesticolare. Sto dicendo cose scontate. Cose che potreste immaginarvi senza sforzo, facilmente, con un briciolo di mediocre fantasia. Un tentativo di chiudere la partita uscendone pulito. La ricerca di un punto vincente. Attacco, proprio mentre un uccello viene a sbattere contro il vetro. Mentre si aprono le porte a vetri, scavalco il corpo della guardia giurata, un tizio sovrappeso con la mano sulla pistola consegnato all’eternità in una plastica posa fangosa. Una voce registrata consiglia la conserva in offerta al reparto alimentari con roba jazz in sottofondo. Salgo le scale mobili del centro commerciale deserto fino al parcheggio sul tetto. Quando la porta si apre vedo solo un tramonto infernale su una distesa immensa di terra battuta, uno sconfinato campo da tennis a perdita d’occhio. Ed è proprio ora, così, mentre ti penso, che provo l’irresistibile bisogno di giocare un rovescio lungo linea.

Alessandro Niccolai