Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana
La Luna ha venticinque anni, forse un po’ di più. La pelle di ebano e gli occhi ben definiti sotto miliardi di ricci finissimi, più neri del buio. La vedo quasi ogni giorno. Condivide con me ed altri, sempre gli stessi, le lunghe attese sulla banchina della metro al mattino, dentro quel momento propizio nel quale, alle volte, ci si stacca dai cordoni ombelicali che ci tengono annodati a prigionie digitali, e si pronunciano parole verso qualcuno, piuttosto che scriverle. – “Ma che j’avemo fatto a questi? Sto treno se fa aspettà e poi quanno ariva non se riesce mai a entrà…”, “Questi dell’ATAC ogni matina pare che stanno a fa’ n’bambinello.”, “Sta metro è na Cambogia.” – Cose così, dette aspettando l’arrivo di un treno... Oggi inizia l’inverno, e la Luna ha calzato, intorno alla testa, una fascia di lana con striature colorate. A guardarla, è una combinazione cromatica che abbinata alla pelle scura e lucida, illumina e irradia il grigiore di questa mattina. La Luna è tonda, ma tonda per davvero. Lei è “la Luna” proprio per questo. E come la Luna, da qualche parte, nei suoi lati oscuri, di certo nasconde crateri mai illuminati dentro i quali, forse, albergano storie che hanno formato cicatrici, o sogni che fanno fatica a liberarsi. Lei, però, vola più in alto, con leggiadria ed eleganza insospettabili, gira intorno alle mattine danzando come una sfera simpatica, strabordante, che non si perde mai d’animo, che cerca e pronuncia parole, dolci, possibilmente allegre. Insomma, cascasse il mondo, la Luna prova a ballare una musica senza ultime note, come se fosse sempre Luna piena, per poter brillare sotto il cielo di questi attimi vissuti a respirare la stessa aria, stazionando nello stesso luogo, ogni santa e benedetta mattina, cercando colori che non riconosciamo troppo spesso. Un giorno le chiederò come si chiama. Non vedevo Yuri Chechi da un bel po’, forse un anno. D’improvviso aveva smesso di viaggiare, o almeno, di viaggiare sul mio stesso treno. Sembrava scomparso da quei nostri taciti quotidiani spostamenti su rotaia, sempre dentro lo stesso vagone e sempre alla stessa ora, weekend esclusi, fin dal maggio 2015, quando la fantasmagorica Metro C di Roma ha iniziato il suo peregrinare sulla tratta Monte Compatri Pantano–Lodi (prolungata poi fino a San Giovanni). Il suo viso spigoloso, perennemente abbronzato, non passava inosservato. Specie per quel paio di grandi anelli che gli penzolavano dai lobi delle orecchie e che avevano dato ispirazione nel battezzarlo Yuri Chechi. Aveva una collezione di magliette con le quali portava in giro slogan, frasi ad effetto e aforismi, alcune in avanzato stato di decomposizione, ma sempre ben indossate su un fisico asciutto ed armonioso da muratore più che cinquantenne. Non ho mai capito da quale stazione provenisse. Ma ogni volta che varcavo l’ingresso numero 18 della fermata Gardenie, me lo ritrovavo sul treno, nel suo solito angoletto, sempre in compagnia di una donna bruna, forse della stessa sua età, dai grandi occhi scuri e due seni da applauso. Abbarbicati l’uno all’altra, passavano quegli otto-nove minuti del tragitto a scambiarsi abbracci, smancerie e parole sussurrate, come chi è travolto improvvisamente dalle prime fiammelle amorose. E spesso, sgomitando tra le risatine ingenue di adolescenti e scolaretti, pronti a far battutine coprendosi la bocca con le mani, oppure tra i cenni muti e gli sguardi un po’ infastiditi di adulti attempati. Yuri e la sua donna mi stavano simpatici. Loro se ne fregavano. Trovavo, quel modo di essere così trasparenti e luminosi in mezzo al buio del giudizio inopportuno, davvero sexy. Con Yuri non ci ho mai scambiato una parola. Il treno quest’oggi è pieno e la Luna, in un italiano un po’ stentato ma comprensibile, come tutti, spinge per entrare: – “Dai dai, per favore, fai entrare anche me che Giovannina aspetta, dai per favore, tu sposta poco e entro pure io, Giovannina aspetta.” – Con la tenacia di chi non si perde mai d’animo e col solito sorriso abbinato a parole gentili, è riuscita a farsi spazio e ad incastrarsi dentro il vagone. Non è stato facile per lei. Ho visto svolazzargli intorno pensieri fastidiosi come insetti, di quelli senza alucce né aureole. Un uomo, sin troppo insofferente, ha provato a fermarla. – “Ahò, e mica poi spinge così” – “Scusa non posso aspettare prossimo metro, Giovannina aspetta” – “E che te credi, pure noi aspettamo, aspettamo, aspettamo sempre, e po’ aspettà pure sta Giovannina… e poi… lassamo perde va… che nun è aria…” Oggi, primo giorno d’inverno, entrato nel vagone scopro che Yuri è tornato. Ne sono sorpreso e mi attardo ad osservarlo. È cambiato. Sembra triste, dimesso, un po’ appesantito, ma soprattutto è solo, senza la donna dai grandi occhi scuri con la quale sfidava occhiatacce e risatine. Chissà cos’è successo, chissà com’è andata. Se ne sta taciturno e malinconico, con il viso solcato dal tempo e la testa vagante in un altro luogo, seduto al suo solito posto con una piccola borsa azzurra tra i piedi, rintanato dentro un giacchetto verde militare, sgualcito, indossato sopra una malconcia t-shirt sulla quale si staglia la scritta “Smadonno ma nun mollo”. La Luna, intanto, lì vicino, continua a subire parole dal tipo, che non ha intenzione di comprenderne la difficoltà né a diminuirne l’imbarazzo. Lei chiede scusa giustificandosi con quella necessità di correre al più presto da Giovannina, e si guarda intorno, continuamente, per cercare comprensione. Ha guardato anche me. Ho provato a sorridergli dietro la mascherina. Non so se abbia compreso. Adesso però Yuri si è alzato. Sbuffando. Il tipo insofferente è il più vicino a quel posto lasciato libero e prova subito ad occuparlo. Ma Yuri lo blocca col cenno di una mano, e poi guarda la Luna. Le parla senza fronzoli, quasi col tono di un padre che sta impartendo un ordine – “Mettete qua che in piedi stai scomoda”. È la prima volta che ho udito così chiaro il suono della sua voce. Sembra quella di un uomo che conosca il dolore. Ora la Luna è seduta. Con gli auricolari indossati ha iniziato a dondolare la testa. Ed è subito eclissi.