“Gli scrittori sono osceni; se non lo fossero, sarebbero ragionieri, conducenti di tram, centralinisti, sarebbero rispettabili.”
Amélie Nothomb
Che dire, è stata subito simpatia e incontri casalinghi, che stranamente avvenivano solo in un’unica casa… la mia. Ed è li davanti a me. Poi si muove e prova ad atteggiarsi come se la dimora fosse di entrambi, come giocassimo alla famiglia felice. Solo al secondo incontro. Che sia un suo bisogno? Ma siamo li, per simpatia. Non la conosco ancora, ma reduce da un accompagnamento di una giovane vita verso una fine immeritata, porto ancora dentro un atteggiamento di cura e di attenzioni. Tra discorsi di circostanza cerchiamo di rappresentare una convivenza precoce, anche se part-time. Nell’apparente finzione ci studiamo, cerchiamo di capire, ci guardiamo.
Una parte di noi forza la condizione portandola avanti come ci conoscessimo da anni. In verità non mi disturba affatto questa situazione. Mi ci trovo a mio agio. Mi piace, come inizia a piacermi lei. Quella simpatia, quello slancio in avanti come ci conoscessimo profondamente da tempo, si trasforma costantemente fino a far fluire pensieri intimi, animali, i miei. Le mie tendenze, il mio essere escono allo scoperto. Immancabilmente emerge il mio senso di consensualità, unica condizione per esprimermi liberamente, e tra i discorsi in superficie sgomita e prende spazio la presentazione delle mie preferenze sessuali. La mia tendenza a dominare, a portare ad una fiducia incondizionata tale, da poter condurre un gioco senza limiti. Mentre le mie parole scorrono una dietro l’altra, fluide, due occhioni sgranati arrivano a toccarmi. Al sentir parlare di corde e di bondage lei incalza sbigottita: “Voi siete matti, pervertiti, addirittura malati…” In pochi attimi tutto sembra stralciato, smembrato, rovinato. Si crea un imbarazzo palpabile.
La rassicuro spiegandole che la consensualità sta alla base. Di conseguenza non si deve sentire né in imbarazzo né tanto meno in pericolo e ancor meno obbligata. Mi guarda, gli occhi si fanno sottili e in men che non si dica mi trovo le sue labbra sulle mie, anzi dentro, come prender possesso anche delle mie interiora. Le mie mani tengono con forza il suo viso. Il viso indemoniato che mi mangia dentro. L’ennesimo ribaltone. Magicamente il suo vestito scivola sul suo esile corpo e si accascia ai suoi piedi ancora calzanti, di scarpe comode ma non troppo femminili, come a contrapporsi all’esagerata donna che sta prendendo forma. Non esito a prenderle con forza la mano per trasportarla al piano di sotto. Si, nella taverna di casa. Un luogo in cui il mondo rimane fuori, non osa entrare. Scivoliamo giù per le scale e ad ogni gradino corrisponde un livello incalzante di adrenalina. Arrivati nel punto più basso della casa ci sentiamo inghiottiti in una profonda dimensione. Unica, ai margini della mente. Due cose non si staccano mai… i nostri occhi e le mie mani dal suo corpo. La prendo di peso, la alzo mentre lei si attracca saldamente al mio collo e mi circuisce i fianchi con le sue gambe. Appoggio il suo piccolo sedere ad un vecchio tavolo in ciliegio. Un oggetto che conosce le mie mani per averlo levigato, spagliettato e accarezzato per poi finirlo con olio e panno, fino a sentirlo vivo. Si, il legno. Una delle mie passioni. Il termine “lavorarlo” è improprio. Lui è vivo. Lui vive se l’amore e le sapienti mani si dedicano. Quale posto migliore potevo scegliere per quell’esile corpo scolpito, di cui percepivo il desiderio di rinascita? Il tempo in quel luogo si fermava al contrario delle mie mani che incalzavano in ogni modo per farlo rivivere. Un piccolo movimento delle dita, mentre gli occhi sono negli occhi e il reggiseno scivola tra quella minima distanza lasciata tra il mio petto e il suo. Impugno le tonde spalle e adagio la sua schiena sul piano in ciliegio. Lei si lascia accompagnare e nell’avvicinarsi della sua schiena alle venature del legno socchiude gli occhi e sento il suo corpo abbandonarsi. Le braccia rilassate fiancheggiano il corpo.
Le mie mani lasciano le piccole spalle e percorrono i piccoli seni, passando poi per gli addominali fino ad incontrare il pizzo delle mutandine. Il tavolo misurava giusto la lunghezza del suo corpo, meno la lunghezza delle tibie. Le dita si infilano tra l’elastico e i fianchi e il pizzo scivola fino a staccarsi dal corpo e vola delicatamente sul pavimento in legno. Per alcuni minuti la accarezzo ovunque, la guardo, ascolto le reazioni della sua pelle, dei muscoli, del suo respiro, mentre gli occhi non accennano ad aprirsi. Non hanno più bisogno di controllo.
Volevo solo precisare che non era mia intenzione scrivere un racconto erotico o smuovere i vostri sensi. Effettivamente mi sono lasciato troppo andare nella rievocazione, ma devo trattenermi per mantenere intimo il nostro momento. Così cercherò di sintetizzare quelle ore di unione e passione per lasciare a noi due le sfumature. Così, legai polsi e caviglie alle corrispondenti gambe del tavolo. Le bendai gli occhi con un brandello di seta nero. Ascoltai il suo corpo, la sua mente. Ne entrai in possesso tanto quanto lei desiderava affidarsi. E ci amammo tra la forza e la delicatezza. Le ore passarono ma dovetti porre fine per rientrare nel mondo, che incazzato per non essere gradito, ci aspettava al piano di sopra. E così fu!!!
Lei tornò più volte, e più volte ancora. Senza abbandonare il suo pregiudizio. Ripetendo le stesse frasi, gli stessi giudizi: “Voi siete matti, pervertiti, addirittura malati…”. Era diventato un rituale. Ma poi… le labbra sulle mie, anzi dentro e via, giù per le scale. E il mondo rimaneva fuori, insieme al vestitino accasciato sul pavimento.
Racconto e foto
di Giordano Affolti