[ Il circo delle pulci ]

RACCONTI di Nicolai

Johnny Weissmuller agitava il ciuffo in bianco e nero, mentre si batteva contro il leone vistosamente di pezza, nel DVD de: “Il re della foresta contro Kazzanga”. Johnny Weissmuller era stato campione olimpionico, o qualcosa del genere. Poi, un giorno, un produttore gli aveva infilato a forza un costume leopardato e da dietro a un megafono gli aveva detto: “Strilla Johnny” facendolo diventare il Tarzan più famoso di Hollywood. Comunque, al secondo ruggito della belva di peluche, scoppio a piangere dietro al mio trancio di pizza, a singhiozzi, come un bambino. Mio figlio se ne accorge e mi chiede: “Perché piangi, papà?” Le cose stanno così: avevo sette o otto anni e una mattina di maggio, nel mio quartiere arriva un circo. Giravano per il quartiere con una Fiat 850 rossa e un megafono sul tetto, era il circo Zardoz. Nel manifesto attaccato ai lampioni c’era un domatore ipertrofico che, frusta alla mano, cacciava la testa calva nella bocca di un leone grosso come un bisonte. In un altro, un gorilla incazzato teneva in pugno una vestita di stracci che mi ricordava mia zia Pina, ma in brutto. Quella mattina, dei tipi con i baffetti e delle camice a quadri piantarono i picchetti, tirarono funi e cavi d’acciaio e, in quattro e quattr’otto, il circo era bello che pronto. Da dietro quel telo a strisce bianche e rosse, per due settimane, fu tutto un ruggito a ogni ora del giorno e della notte. Alla mattina del sabato, Ignazio Scarpa, il cazzaro del Bar Ragusa, poco dopo la terza sambuca raccontava che il leone Astor era fuggito verso i fossi della marana mangiandosi vivi, per strada: un custode, due monache e un bigliettaio della Stefer che smontava di turno. Disse anche che la polizia cercava la belva per tutto il quartiere armata di fucili da elefante, caricati con delle fantomatiche pallottole al mercurio. Allora, in preda a una febbre malarica della savana, dissi a mio padre che volevo vedere i leoni a tutti i costi. Mio padre rispose che i leoni erano belli nella savana, a casa loro, che a Centocelle ci bastava il cane di quello del terzo piano che latrava tutta la notte. Non convinto, piansi istericamente per tre giorni filati e mio padre, bestemmiando, al tramonto del quarto giorno cedette per sfinimento e perché mia madre gli disse che o mi faceva smettere o sarebbe saltata anche la copula natalizia, l'unica dell’anno solare, come da contratto autoferrotranvieri. Mentre facevamo la fila alla biglietteria le grida dei leoni mi rivoltarono la pancia per l’emozione e, dopo aver preso posto, un tizio con i baffi finti e un cappello a cilindro prese a parlare, immerso nella segatura fino alle caviglie, dentro a un grande microfono che fischiava. Sotto il tendone si crepava di caldo e saremo stati al massimo in dieci. Riconobbi mezzo quartiere, c’era anche il portiere Briguglia con suo figlio “Paolone”, un ciccione che puzzava di salame e perdeva moccio dal naso. Dopo dodici rulli di tamburo apparvero nell'ordine: “Rufus il pagliaccio” che le prese di santa ragione tutto il pomeriggio, felice come un santo vecchio, “Brozo, il nano più alto del mondo” (un metro e settantotto senza tacchi), Il “Trio Scwartz”, dove tre siamesi uniti per i talloni facevano la ruota più grande d’Europa, Il “Mago Sm’rtz” che segò in due quella della biglietteria rovinandola per sempre, “Shanna La Donna Scimmia”, una tizia di Matera affetta da ipertricosi che ingurgitava banane tra gli sghignazzi e, soprattutto, il gran finale con il trapezzista “Waldo Volante”, che si schiantò in terza fila durante l’esecuzione del salto triplo della morte carpiata, spirando all’alba tra spasmi e atroci dolori. Alle diciotto, i miei, mi trascinarono via a forza e in lacrime. Ma dei leoni, nemmeno l’ombra, niente. Non avevo visto neanche una quaglia gigante, un tacchino albino o una papera mannara. Ero disperato. Uscendo, mio padre alzò un lembo del telone e mi disse: “Guarda”. In mezzo alle balle di fieno c’era un altoparlante attaccato a un registratore da cui uscivano versi di animali registrati: ruggiti, barriti, ululati e ogni genere di suono della foresta. Ero nel pieno di uno psicodramma, arrivai a casa e non cenai nemmeno, mi addormentai guardando il manifesto di Tarzan contro le amazzoni e mi accorsi per la prima volta che Jhonny Weismuller aveva la panza. In quell’esatto momento smisi di essere un bambino, per sempre. Ecco perché ancora oggi, ogni volta che sento un ruggito, mi viene da piangere.

Alessandro Niccolai