L’eritreo

Metro Goldwyn Mak - racconti dalla metropolitana

Osservo il continuo saliscendi di ragazzi lungo il percorso della Linea A. Trainano zaini al guinzaglio e ostentano, stampata in volto, la leggerezza della gioventù. Alcuni amoreggiano, altri maledicono un professore di chimica troppo esigente, altri ancora ironizzano sull’abbigliamento anteguerra della secchiona della classe. Mi intrufolo rapidamente dentro una personale galleria di ricordi, quella della mia età scolastica, ripassando volti e voci di compagni complici di un tempo sparito, come Vito, o Salvatore. Rivedo scherzi diventati iconici ed incubi da interrogazione. Ripenso anche ai primi pruriti ormonali, lontani anni luce, che mi procurava Dina dagli occhi di cerbiatto. Non sapevo nulla dell’amore, ma di certo, cominciai a comprendere quanto fosse fondamentale un paio di belle tette per smuovere il coraggio dell’approccio. Quello di oggi è un vagone insolitamente poco affollato: forse c’è più traffico di pensieri nella mia testa che dentro la carcassa rumorosa di questo treno. C’è un ragazzo dai capelli ricci e neri che ha occupato un sedile in fondo. Sulla sua testa un paio di cuffie nere si confondono con la capigliatura. Non lo conosco, ma lo guardo come fosse la Dea Kalì con tutte le sue “tante-troppe” braccia. Sento un improvviso desiderio di bastonarlo: l’invidia per quel suo essere capace di vivere in modalità “multitasking”, mi divora. Non capisco come possa leggere un libro, maneggiare un telefonino, ed ascoltare musica battendo il tempo con mani, testa e piedi. Sarà che fatico a camminare e a respirare contemporaneamente, ma queste specie di polpi multifunzione io, proprio, non le sopporto. “Daje regà, ce stanno pure i posti”. Dall’esterno della stazione di San Giovanni, una voce annuncia l’ingresso di un gruppetto di adolescenti che, a guardare il loro dress code, è evidente appartengano alla stessa tribù. Sono quattro, entrano disordinatamente, tutti con i marsupi agganciati in vita e quell’espressione da “maranga” in carriera, occupando la fila di posti a sedere proprio difronte a Kalì. Ce n’è uno in particolare che mi colpisce, con una sigaretta abbarbicata sull’orecchio, al lato di un cranio sul quale, un cinesino, pare si sia divertito a disegnare ghirigori di dubbio gusto artistico con una minuscola macchinetta tosa erba. Hanno tutti catene e catenelle di diverso spessore e pessima fattura, in bella mostra, su bomberini imbottiti, indossati sopra a jeans lacerati o a tute dalle fantasie tra le più imbarazzanti concepite nell’intero globo terracqueo. I “fratelli der faina” esistono davvero. Tra di loro si chiamano “fraté” e comunicano urlando, come se il mondo intorno non avesse orecchie per sentire. Bivaccano boriosi, spalmandosi sulla fila di sedili arancioni, senza preoccuparsi della forma. Due di loro, seduti spalla contro spalla e coi piedi adagiati lì dove la buona educazione indicherebbe si debbano appoggiare le sole terga, mi ricordano il logo di una nota casa d’abbigliamento sportivo. Quello che sembra essere il boss del gruppo, un tipetto scuro e magrissimo con un giubbottino lucido nero e un cappuccio azzurro in testa, sogghigna scandendo bene le parole, guardandosi intorno come per soppesare l’attenzione di tutti gli occupanti del vagone: “A regà, famo così. A scola famo scattà l’allarme droga, così se presentano ducento guardie pe’ guardà dentro l’armadietti mentre noi famo sega”. Sorrisetti. Ed un altro, un tipo più paffutello: “Sì, così ce se bevono a tutti”. – “A fratè nun ce se bevono, fidateve, parola d’eritreo”. Alternano risate sguaiate a momenti più seri, come quando si inizia a parlare delle disgrazie del PIL italiano dopo essersi scompisciati per una barzelletta. Accanto a me una signora bionda con cappotto leopardato, ed occhiali modello Lina Wertmüller, scuote la testa: sta forse pensando alle colpe di una generazione incapace di preservare il rispetto, chissà se comprendendo anche un “mea culpa”. A Manzoni, una ragazzina dai capelli di un color fucsia appena accennato, entra nel treno. La sua attenzione è tutta focalizzata su un quadernone di appunti: probabilmente ripassa un capitolo in previsione di una interrogazione. Ha la stessa età del gruppetto e di certo, quel suo transitare indifferente davanti a loro, è bastato a sospendere nel vuoto la boria e le certezze dei quattro, più presunte che effettive. Dopo averla seguita con gli sguardi, frenando per un attimo i discorsi, il tipo col marsupio arancione avanza un’ipotesi: “A eritrè, ma questa? Non è uguale a Flavia eritrè?”. L’amico, in una smorfia dubbiosa: “ma Flavia chi? Quella che è rimasta co’ quella comitiva de ritardati quanno stavo a li scaloni?” – “Sì quella lì, quella che stava co’ te e che poi t’ha mollato”. Nel treno, nel frattempo arrivato a Vittorio Emanuele, molte orecchie hanno indirizzato le loro antenne verso un dialogo che incuriosisce, manco fossero alla ricerca di segnali extraterrestri dal cosmo. Spero solo si arrivi ad una conclusione prima di scendere a Termini. Non vorrei perdermi il finale. “Ma che cazzo stai a dì. Io stavo sempre là, a li scaloni, e per questo poi ce semo... tipo... mezzi lasciati, ma ero io che n’a carcolavo mai, ch’era proprio n’accollo”. – e marsupio-arancione: “Eh, o’ so, m’o ricordo che j’avevi detto che c’avevi tipo n’impegno… e ‘nvece lei t’ha visto da’a finestra che stavi a li scaloni e s’è ‘ncazzata. Ma è vero? C’avevi davero n’impegno a li scaloni?” – “E si, me c’hanno pure bevuto là...” Chissà se anche Dina sarebbe stata “n’accollo”. Ritorno inevitabilmente a pensare a lei che non mi ha mai degnato nemmeno l’accenno di una chance (“nun m’ha mai carcolato” direbbero questi qui) mentre io mi rodevo dentro. Il machismo in erba dell’eritreo, invece, pare avergli eretto intorno un muro a protezione dell’orgoglio. Lo guardo. Sembra uno che sa già come galleggiare senza affogare dentro la vita. E mentre il treno sta per fermarsi a Termini, chiude definitivamente la questione, pontificando un suggerimento al mondo circostante: “Fratè, mo ve dico l’unica lezione de vita che m’ha fatto mi padre in 15 anni: mai mettese co’ na’ pischella compagna de classe. Sinnó si te lasci, sai che cojoni pe’ cinque anni de scola?... Ora però devo scendere.

Mak Barbaro