[ La sogliola di Platone]

RACCONTI di Niccolai

«Ma chi cazzo è Sonia Pesaturo?!?!» Il grido riecheggiò come un tuono d’estate nei corridoi dello studio del notaio Calamandrei per dieci secondi buoni. Alla lettura dei testamenti se ne sentivano tante, ma un grido così, non si udiva da quella volta che il primario Santarelli aveva fatto fuori dall’asse ereditario sua moglie per un clamoroso caso di corna con l’aggravante, a detta sua, della interrazialità. Sonia Pesaturo era una misteriosa femmina a cui Rosario Cuticchia, pensionato, aveva lasciato ogni suo avere. I figli, con gli occhi come due uova sode e le pulsazioni cardiache di un ratto, chiesero con estrema calma e gentilezza la rilettura delle ultime volontà del padre scuotendo il capo e convinti di aver capito male. «Io, Rosario Cuticchia, nel pieno possesso delle mie facoltà, lascio la mia casa di Via Zabaglia 128, il casale di fosso scuro, la mia Fiat 126 e la somma di centomila euro a Sonia Pesaturo. Ai miei due figli, Arminio e Caterina, lascio un box di 30 mq in Via Garibaldi, la mia collezione di francobolli e il mio amatissimo Gilera 50 cc del1972. Tutto chiaro ora?» Ripeté annoiato il notaio davanti ai due fratelli attoniti e al legale della signorina Pesaturo che, diceva lui, non aveva potuto presenziare alla lettura a causa del grande dolore che la affliggeva dopo aver appreso della dipartita del povero Cuticchia. «Ma si può fare ‘sta cosa?» Chiese Arminio con la voce che tremava. «Certo che si può, il testamento lo ha scritto in vita ed era lucidissimo quando è venuto qui a dettarmelo» «Mi scusi, ma non ha cercato di dissuaderlo dal commettere questa follia?» Insistette ancora Arminio. «E perché avrei dovuto? Io sono un notaio, sulle scelte dei miei clienti non metto bocca. E poi, se proprio devo essere sincero, non vedevo vostro padre così felice da moltissimo tempo a questa parte» «Ma si può impugnare ‘sto testamento, almeno?» «Se avete tempo e soldi da buttare al secchio, certamente. Ma fossi in voi, mi accontenterei del Gilera 50. Anzi, io sono un collezionista di moto d’epoca, se volete vendere fatemi un colpo di telefono, Ah, quasi dimenticavo, questa è una lettera che vostro padre mi ha lasciato per voi lo stesso giorno del testamento. Mi ha chiesto espressamente di darvela subito dopo la sua dipartita» disse porgendo loro una busta bianca con un sigillo di ceralacca. Che qualcosa non andava, lo avrebbero dovuto capire subito, già dal giorno del funerale, quando sua figlia lo aveva amorevolmente vestito in casa, dove era morto, con un completo blu che gli stava ancora alla perfezione, due scarpe lucide senza lacci, una bella cravatta e lui, inspiegabilmente, aveva una faccia serena e sorridente che pareva dipinto. Poi, mentre aspettavano che quello delle pompe funebri venisse a chiudere la bara per portarlo davanti alla chiesa del paese, suo fratello, che si era messo a riordinare documenti e vecchie carte di famiglia, dalla cucina disse: «Cateri’, vieni un momento». Quando Caterina entrò nella stanza trovò Arminio fermo davanti al frigorifero con gli sportelli aperti, immerso in una nuvola di vapore freddo con gli occhi fissi in un punto lontano dentro al refrigeratore di marca Zoppas. «Che c’è Armi’, che fai lì impalato?» «Guarda qui» gli disse suo fratello facendole cenno di avvicinarsi. Quando sua sorella affacciò la testa oltre lo sportello, le apparve un’immagine che manco un’installazione alla biennale di Venezia. Dentro al frigorifero, stipate con cura maniacale, vide una serie infinita di buste di surgelati impilate una sopra l’altra a riempire ogni spazio libero disponibile. Praticamente un muro fatto di sogliole, filetti di platessa e merluzzi. I figli di Rosario Cuticchia rimasero con la bocca aperta che parevano due lucci appena pescati. Poi si voltarono verso Maria, la collaboratrice domestica che da qualche tempo si prendeva cura del padre e, a cappella, dissero: «Marì, ma che cazzo hai combinato qui dentro?» «Io? E che c’entro?» «Ma come che c’entri? Ti diamo centoventi euro a settimana solo per la spesa, qualcosa su questo macello la saprai dire, no?» «Ma quello è vostro padre che andava al supermercato tre volte al giorno. Una vera mania, non c’era verso di convincerlo a farmi fare la spesa. Voi lo sapete com’era fatto e in fin dei conti i soldi erano pur sempre i suoi» «Sì, ma, dico, quando hai visto che stava comprando solo surgelati, avrai pur capito che il vecchio si stava, come dire, rincoglionendo, no?» «Sentite, io in questa storia non voglio entrarci» disse quella asciugandosi le mani sui fianchi. «Ma di quale storia parli, Mari’» chiese Caterina. «Ma voi davvero non sapete niente?» «No. Cosa dovremmo sapere?» «Insomma, di quello che si dice in giro. In paese la cosa è sulla bocca di tutti» «E noi non sappiamo una beata mazza, di che parli» «E certo che non sapete niente, venite solo due volte l’anno…» «Marì, hai rotto i coglioni, parla per Dio!» Disse Arminio dando una manata sul tavolo. «Insomma, pare che vostro padre avesse una storia, ecco…» «Ma una storia di che, che c’aveva novantadue anni!» Dissero nuovamente in coro. «L’amore non ha età, ve lo dice una che ha il fidanzato con sedici anni di meno» aggiunse lei. «Marì, ci stai facendo girare il cazzo. Chi è questa? E che c’entra con la roba nel frigorifero?» «Non lo so. Pare che sia una che lavora al reparto surgelati del supermercato» disse richiudendo il frigo. Insomma, una cosa è certa: quando Rosario Cuticchia esalò l’ultimo respiro per una broncopolmonite fulminante, nessuno si capacitò di come potesse essere morto in quel modo. Il poveretto non fumava e faceva una vita sanissima. «Non capisco. Aveva una salute di ferro» disse il suo medico curante, asciugandosi una lacrima con un fazzoletto, subito dopo averne constatato il decesso, «mai un raffreddore, una febbre. Niente di niente. Per morire così, devi girare tutta l’Islanda in mutande e senza scarpe. Io proprio non mi capacito…» In effetti, la cosa era stata piuttosto rapida. Una mattina aveva cominciato a tossire violentemente, difficoltà respiratorie, febbre molto alta e alla fine non si era più alzato dal letto per una decina di giorni, fino a morire. Certo è che nessuno sforzò la propria fantasia fino a capire cosa fosse realmente accaduto. Questo almeno finché ad Arminio, che quella sera si rigirava nel letto senza riuscire a chiudere occhio, non tornarono in mente le parole di Maria, proprio mentre stava in piedi davanti al water per una delle sue innumerevoli pisciatine notturne. Allora, si diede una manata sulla fronte che gli restò lo stampo per mezz’ora e disse: «Cristo, è quella dei surgelati! Come abbiamo fatto a non pensarci prima!» Al mattino trascinò sua sorella fuori dal letto e la cacciò nella sua macchina che manco era riuscita a lavarsi la faccia. Accese il motore e si diresse verso il supermercato del paese sgommando come in un poliziesco americano. «Dobbiamo fermare quella zoccola a tutti i costi!» Disse a denti stretti Caterina, mentre Arminio derapava tra i vicoli che pareva Timo Salonen. Quando entrarono di corsa e senza fiato nel supermercato, chiesero alla guardia giurata: «Dov’è il reparto surgelati?» Quello, senza manco guardarli, aveva indicato il cartello luminoso con gli sconti della settimana sul rombo e la rana pescatrice in fondo a due lunghissime file di scaffali. «È lì, andiamo a cavare gli occhi a ‘sta stronza» disse ancora Caterina, che aveva provato a truccarsi in macchina e che adesso pareva un membro dei Kiss dopo un’overdose di crokodil. Il direttore del reparto disse che Sonia Pesaturo si era licenziata senza preavviso quella mattina stessa. Ma che siccome non era in regola, non la poteva manco denunciare. Comunque, non fu in grado di dirgli dove fosse andata. Nessuno in paese ne aveva la più pallida idea. Ma io, sì. Sonia aveva preso i suoi centomila euro, aveva fatto una piccola valigia con poche cose dentro e se n’era andata da qualche parte verso le Antille Francesi. Amava il mare e di sicuro tutti quei dolori alle ossa, dopo anni al freddo, con la sabbia calda sarebbero passati in un battibaleno. Non aveva la più pallida idea di chi fosse questo misterioso signor Cuticchia e, per quanto si sforzasse, non le veniva in mente nessuna buona ragione per cui qualcuno avrebbe dovuto lasciarle tutti quei soldi. Ma pensò che la buona sorte, in un modo o nell’altro, se la fosse comunque guadagnata e che farsi troppe domande, non l’avrebbe resa né più ricca né più felice. Per quanto riguarda Caterina e Arminio, tornarono a casa e decisero di leggere la lettera che il padre gli aveva lasciato dal notaio. Si sedettero al tavolo della cucina, la aprirono con un coltello da pesce e lessero queste parole: Figli miei, se state leggendo questa lettera vuol dire che sono passato a miglior vita. Quindi, io non so se me ne sono andato per colpa delle sogliole o di Sonia, certo è che la persona che ha portato questa ventata di aria fresca nella mia vita, ne ha portata talmente tanta che ci sono rimasto secco. Tutte quelle ore ad ammirarla di nascosto davanti ai frigoriferi aperti, mi sono state fatali. O forse, no. Forse è stato l’amore. Ma va bene così, in fondo me ne vado felice perché il freon dei frigoriferi non è niente rispetto al freddo che avevo nel cuore prima di incontrarla. Quello che vi lascio vi basterà per un po’ di tempo e non parlo del box, ma delle sogliole. Quando le mangerete, pensatemi. Io trovo particolarmente buone quelle alla mugnaia, poi mi saprete dire, spero, tra una cinquantina d’anni, almeno. Ora vi saluto, le mie ultime parole sono sui figli che spero avrete: auguratevi che vengano spesso a trovarvi, spero un po’ di più di quanto avete fatto voi con me. In caso contrario, l’unico consiglio che posso darvi, da padre, è di innamorarvi di qualcuno che lavora al reparto pane e pizza. Perché almeno, per male che vada, ve ne starete al caldo. Con affetto, Papà.

di Alessandro Niccolai