La morte è come un dovere

DIE EHE DER MARIA BRAUN -

Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Max Horkheimer e Theodor Adorno
(da “Dialettica dell’illuminismo”)

È piuttosto strano, ma solo con un grandissimo sforzo di volontà non mi sento una puttana
Doris Lessing

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Biennale Teatro di Venezia 2015 – “Il matrimonio di Maria Braun” del regista Thomas Ostermeier

I personaggi di Ostermeier li trovi già sulla scena mentre confusamente entri a cercare il tuo posto in teatro. Respirano. E li senti respirare nonostante il rumore che c’è. Proprio perché quella scena vuole già vivere, e ci riesce, a prescindere dalla nostra eventuale attenzione o presenza. Poi, questa in particolare chiede da subito di essere guardata, seppure in mezzo al chiasso di chi svogliatamente ancora cerca il suo posto. È in salita, probabilmente faticosa da percorrere in avanti e indietro.

A me piacciono tanto le pendenze visive, gli scompensi spaziali che mi mettono in disequilibrio percettivo (forse per questo mi piace tanto Venezia, il sali e scendi dei suoi ponti, l’acqua del mare che sbatte ai margini dei tuoi piedi, il precipitare nelle barche per passaggi obbligati, gli specchi luminosi in Piazza San Marco che vibrano fra i passi per una qualche strategia culturale del vento). La Biennale è anche questo: incertezze visive per nuove visioni. In più, in sala, mi scopro fortunatamente messa di lato, così modulo una prospettiva tutta mia e non rimango a lungo sospesa. Al contrario, fossi stata messa al centro, in mezzo a troppe e diverse direzioni a raggiera, da tutte quelle angolazioni volute come al solito da questo poliedrico regista, avrei dovuto, sarebbe stato necessario, provare a guardare un po’ verso ogni punto. La visione laterale è ogni volta la mia preferita. Certo questa volta è una visione più che mai netta e di parte, è una visione (come spiegherò, me lo auguro) del tutto femminista.

Quando entro e so che c’è Ostermeier, puntualmente mi imbarazzo per quel chiasso che trovo. Eppure stavolta siamo nel nord, ma tutto italiano sempre. Siamo abituati a non accorgerci di come gli altri vivono più silenziosi sullo sfondo, se poi sono tedeschi…quello sfondo in qualche modo è come un futuro, o anche un passato non visto, e mi scoraggio. Però, una volta imposta la calma col buio, sebbene ancora distratta dalle lucette dei telefonini (quanto le odio), quel verde del pavimento, e quello più denso e stantio delle poltrone, tante, sparpagliate sul palcoscenico, finalmente hanno insistito perché mi concentrassi sugli anni ‘50 e sulla Germania. La Germania della disfatta bellica e poi del delirio economico (attualmente imposto).

Un suono cupo e vecchie proiezioni in bianco e nero che si allargano sui vestiti dei personaggi hanno da subito dato la sostanza dell’incubo in cui stavamo per essere immersi: il dopoguerra fino ad oggi. Questo mentre due microfoni per lettere d’amore raccontavano la storia di Maria Braun, che perciò fra quelle voci metalliche irreali prendeva corpo e si ammalava. E quella corrispondenza così perentoria dell’amore, vissuto in modo delirante verso un’unica persona, com’è forse o è stato per ognuno di noi, perché così è da sempre che ce lo hanno rappresentato l’amore (seppure per qualcuno appena conosciuto e poi perso, o anche a lungo immaginato e mai raggiunto), ha fatto di quella figura femminile, e di ogni figura femminile dal dopoguerra fino al nostro tempo, così infiammata e contemporanea, irriducibile e combattiva, un’eroina che è insieme romantica e decadente: il perno astratto, o se vogliamo metaforico, del cambiamento in atto. Ancora auspicabile!

E se è il parametro dell’eterno a renderci così ostinati (direbbe una mia amica a commento di fatti del tutto personali), qui è l’eterno di questa donna, descritto come un’ossessione che gioca a prostituirsi con la realtà, a lasciarci il messaggio di quel che viene. Qui infatti è lei che cambia il suo ruolo, da moglie devota a puttana (il sinonimo maschilista di emancipazione), ed è in questo modo che cambiano, possono cambiare, anche tutte le altre dinamiche sociali in evoluzione. Solo se cambia il ruolo della donna nella società possiamo andare avanti con una nuova interpretazione della produzione e della ricchezza, oltre la fertilità e la riproduttività (purtroppo per il momento nelle giacche costipate e per niente seduttive della Merkel).

Non a caso gli altri personaggi, tutti maschi sulla scena, si vestono e si travestono degli altri ruoli, anche femminili, che a quella eroina stanno soltanto attorno, semplicemente necessari a una trama che deve essere del tutto individualistica. È lei il cambiamento forzato, perché è lei che lo forza. Ma per questo stravolgimento paga un prezzo altissimo: la disillusione dell’amore. E allora è proprio questa la metafora, sia della Germania che dell’Europa!

Con quelle poche frasi innocenti delle lettere come premessa, e quei discorsi degli amanti apparentemente appassionati, da subito si sviluppa una poetica dei sentimenti così ineluttabilmente rigida e concentrica che mi convinco, o forse ne sono già consapevole, che proprio quei sentimenti assoluti non bisognerebbe mai confonderli con la verità. È così che dice il testo del resto. Anche se poi è proprio quel desiderio di verità che ci spinge continuamente a raccontarli come li abbiamo vissuti, i sentimenti, in particolare quelli emotivi collettivi. E non a caso è il concetto dell’amore e di come viene raccontato che cambia il percorso storico degli uomini negli anni a venire fino a oggi. L’amore assoluto che fallisce come finzione è una convenzione sociale, il matrimonio, a fronte della supremazia della solidarietà e degli accordi, spesso taciti, fra i maschi.

E il concetto è da subito recepito. Fra gli spasmi degli ultimi bombardamenti la morte non può che essere ogni conseguenza, un ideale anch’essa come l’amore. E per un attimo ho pensato, non saranno mica la stessa cosa!?

E infatti Maria Braun è una donna ideologicamente innamorata che deve però per questo in ogni momento consegnarsi disperatamente a una sua morte interiore, che poi è anche una morte collettiva, la morte dell’idealità. Ecco perché diventa per lei a un certo punto come un dovere morire dentro, perché proprio solo in quel modo il cambiamento sarà possibile, sebbene costretta dal contesto a prostituirsi in costanza di  matrimonio.

Il messaggio è davvero rivoluzionario, seppure fruito fra le chiacchiere di platea agli eventi internazionali cui non siamo davvero portati. Non ho visto il film sarcastico e cupo del 1979 di Rainer Werner Fassbinder cui Ostermeier si è ispirato, ma è stata questa magnifica regia a renderlo per me così trasparente e contemporaneo.

Maria sposa il marito, Herrmann, sotto un lampadario sospeso di luci eleganti. I lampadari sono degli elementi di scena molto significativi, come i bollitori per il tè, perché, in questo apparente foyer con tutte quelle poltrone messe in conflitto fra loro, il lampadario calato di volta in volta dall’alto, e ogni volta diverso, costruisce ogni storia, ogni fase e l’ambiente. I bollitori invece fischiano come i bombardamenti, e il vapore che ne fuoriesce richiama i crolli, la memoria e l’atmosfera. E poi, Herrmann parte per la guerra e subito le dicono che è morto. Ma lei si ostina ad aspettarlo e non si innamora di nessuno più, seppure costretta a intrattenere militari americani nei locali della città. Da uno di questi, Bill, di colore, aspetta un figlio che poi abortisce. E quando apprende che il marito è ancora vivo, uccide Bill spietatamente. Il marito si prende la colpa e finisce in prigione, mentre Maria stavolta si lega a un uomo ricco, un industriale, Oswald, per un’idea di destino che risulti più conveniente. Quando il marito, che comunque lei aspetta ancora ostinatamente, finalmente esce di prigione, non ritorna certo da lei, se ne va in Canada, per un accordo con Oswald che solo alla fine della storia egli renderà noto, e tutto ciò per riceverne l’eredità. Lei allora si abbandona alla noia di un rapporto infelice, piena di soldi, ma senza più nessuna speranza che sia possibile.

C’è un quadro della regia che mi preme rimanga emblematico in questa mia narrazione. Non tutte quelle poltrone, o le tende che scorrono di lato per far entrare nuove situazioni da fuori sulla scena, l’immagine invece quasi finale di lei elegantissima, con quel suo vestito argento da ricca, che sale a fatica ma con classe verso lo sfondo, proprio lungo quella pendenza di cui all’inizio vi ho raccontato, e lasciando tutti noi e le nostre piccole storie alle spalle, con il povero Oswald appena morto appoggiato ai mobili della cucina e i camerieri di lato a servire piatti freddi vestiti di tutto punto. Lei se ne va, forse a ricominciare la sua lotta da qualche altra parte, in qualche altra storia del mondo che parli di donne irriducibili e ormai disincantate. E per ogni passo di allontanamento e di spalle, calibrato, pensato, il mio cuore si è rotto soltanto all’idea che Maria Braun non amasse più.

Come la regia, la drammaturgia  di Julia Lochte e Florian Borchmeyer è raffinatissima, così le luci, la musica, i video. Veramente bravissimi tutti gli attori; esercitano quella misura tutta tedesca della rappresentazione senza fronzoli, ma lei, Ursina Lardi, nel ruolo della protagonista, ha lasciato semplicemente che il suo corpo rispondesse pienamente all’amore e al dolore.

Visto il 31 luglio al Teatro Goldoni di Venezia.