Ho pensato che potesse essere un nuovo inizio

“Sono tempi dal cielo chiuso. Senza nessun indizio di certezza. Sono di nuovo tempi dove la tristezza è così densa che non sappiamo più sollevarci a combattere contro l’oppressione. Siamo tutti pallidi. E il sangue comincia a sgorgare dal corpo dell’Italia. E quel che oggi a molti sembra grandezza, non è che prepotenza. Quel che a molti sembra purezza, non è che ipocrisia. E quel che sembra Vita, è Morte. Ma io Sono ancora qui, sì sono ancora qui, ed anche Voi siete ancora qui”.

Gabriele D’Annunzio

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“Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice è la storia del dissenso di D’Annunzio che si dichiara contrario all’imminente alleanza tra Mussolini e Hitler (siamo nel 1936). È un film sul dissenso in generale, su ciò che comporta in particolare per l’Individuo, le conseguenze che genera nella sua vita libera, l’isolamento a cui deve coraggiosamente andare incontro per mantenere puro il proprio ideale. Ma il dissenso può anche essere l’unica via al cambiamento, anche personale, anche quando richiede il sacrificio della propria esistenza e della propria immagine.

Il racconto si svolge in capitoli. Al giovane federale Giovanni Comini (il bravissimo Francesco Patanè), di stanza a Brescia, viene assegnato dal Segretario del Partito Fascista Achille Starace (uno spietato Fausto Russo Alesi) l’incarico di sorvegliare Gabriele D’Annunzio (eccellente Sergio Castellitto), da 15 anni rinchiuso nel Vittoriale, per raccogliere su di lui informazioni di ogni tipo. Il giovane manda rapporti alla Casa del Fascio, via via stringendo però amicizia con il Poeta, che intanto gli apre visioni nuove e lo incoraggia a tirare fuori, a forza, l’immagine che ha di se stesso. E nel mentre il Vate si ammala di malinconia, la sua tristezza svela il senso di ogni cosa intorno al giovane Comini, che pure dovrà affrontare le sue prime delusioni, l’inadeguatezza, lo scontro fra ideale e realtà, la perdita e il lutto.

Cominciamo dai colori così sapientemente distribuiti sulla scena. Dominante è il grigio pietra delle cose inattuali, eppure presenti, il passato che si materializza perpetuandosi nelle forme delle cose ferme. Ma questo grigio così stantio, ottuso e ingombrante, che limita e opprime la luce, viene puntualmente messo a contrasto con l’azzurro cristallino vitreo del pensiero poetico all’orizzonte, sempre pronto a rompersi e a frammentare. Colori come pietre e vetro, libertà e potere.

E così, in conflitto, sono anche i colori dell’arredamento del Vittoriale, dove è possibile entrare solo furtivamente, in segreto, con sguardo da spia, assaporarne gli interni da angolazioni inedite, occhi di sbieco fra riflessi e ombre di ciò che viene rappresentato, più facilmente sgusciando come topi, origliando dietro le porte, di passaggio nei corridoi, quei topi che D’Annunzio tanto odia e che delirante vede scorrere a nascondersi continuamente e impunemente intorno a sé.

Una dimensione antica e solenne quella del Vittoriale, ostentata e carica, di volti marmorei e occhi svuotati, gesti anneriti lasciati in posa di statue neoclassiche e personaggi ambigui messi qua e là a intimidire. E intanto i topi corrono sui pavimenti e occupano gli angoli bui con quel loro movimento subdolo della congiura che ogni volta si ripete vincente per ogni impero.

Al grigio di questo sfondo di topi, l’azzurro zucchero decadente delle pareti, e i colori densi delle tende, e poi anche il turchese trasparente impreziosito di pietre luminose per le vestaglie delle giovani donne portate all’altare di questo uomo, il cui passato è segnato da imprese incredibili (come quella di Fiume). E ogni volta è come una sorta di vestizione delle vergini, operata dalle donne più vecchie, che restandogli accanto in ricordo di ciò che hanno già vissuto, si prestano ora ad altre ancelle, come ancora infiammate di quel piacere che si perpetua e che chiede di essere continuamente saziato, e che il poeta sempre pronto e ingordo restituisce in visioni d’arte, in fascino ed erotismo per ognuna, perché con il suo Piacere alimenta ogni immaginazione erotica del mondo. In ogni iniziazione al sesso, come fosse arte, fluisce la bellezza. Nell’erotismo come via sempre possibile al bello, il pensiero erotico diventa esaltazione della vita stessa. Ma lampade di luci gialle, arancioni, calde e passionali, per notti in realtà ormai tenere e poco voluttuose, quasi romantiche, non sono più esperimento di quel proprio spirito libero e così conoscitore di suoni e odori di umidi boschi. E invece le giacche bianche degli ideali non incupiscono, e la testa rasa, color carne, restituisce la percezione, anche sessuale, di un maschio che vuole essere ancora dominante.

Questo film di Gianluca Jodice, da lui scritto e diretto in modo commovente, rende in immagini e colori, poetici e tragici, la sopravvivenza di un poeta alla realtà politica, minacciosa, del consenso, la realtà dei fasci fanatici, codazzi neri e violenti di prepotenza e ipocrisia, che pure egli aveva creduto di dominare, almeno per eloquenza, e che invece lo sconfiggono e lo rendono inutile nel suo verso crepuscolare. Esiliato, confinato in quella sua villa, è stanco. Prima o poi da abbattere, perché scomodo e intransigente, viene costretto in un simulacro di valori usurpati, quelli della patria, ormai alla luce di un sole che tramonta verso il buio. Eppure flebile, inquieto, riesce a sussurrare a Mussolini: “memento mori”, ricordati che devi morire.

È in questo modo che il Vate si accascia, in questa luce che si spegne, per impotenza, eppure mai smette di riconoscersi, di restituire all’idea la sua bellezza, perché la bellezza resista in lui: “…non sapevamo quel che eravamo e cosa volevamo…ora sappiamo chi siamo e cosa vogliamo”, e tutto ciò grazie al dolore, il dolore che è per “non lasciare che la bellezza muoia”.

È un film davvero carico di dolore e di tristezza, ma anche di tanta bellezza, di quella tristezza densa che non lascia sperare, di quella bellezza aerea che è di un sentimento alto. Ed è in questa bellezza che il dolore calamita a sé forze nuove. Così questo vecchio che vuole stringersi agli occhi di un ragazzo, e che ormai malato e annullato sta morendo, trova in quel giovane scrittore una sua nuova linfa che si perpetua, seppure nel torpore del crepuscolo. Una piuma di pavone aleggia irrequieta e splendida fra le mani del federale Comini.

In questo racconto non si smentisce l’appartenenza di D’Annunzio all’ideale che egli ha della patria, l’affiliazione al partito fascista, che egli non rinnega. E però quel suo ideale incupisce, messo in contrapposizione alla sua poesia, al verso e alla bellezza, cosicché egli arriva a riconoscere il ridicolo di certe figure e quel loro preoccupante vuoto. Anche la figura di Mussolini rimpicciolisce inesorabilmente di fronte a tanto ardore.

L’impianto teatrale usato, gli attori, tutti così di qualità nell’incastro scenico, rendono la parola la vera protagonista dell’azione, addirittura la voce dei singoli personaggi arriva ogni volta sapientemente sfumata e carica di emblematiche sensazioni. In particolare quella vellutata di Tommaso Ragno, nel ruolo di Giancarlo Maroni, l’assistente, che dà il senso dell’accudimento e del rispetto. In questa figura cosi misurata e allo stesso tempo piena, che fa da scudo e involucro al Poeta con altra poesia, è così generoso questo attore da rendere il contesto talmente significativo e pregnante che altrimenti non avrebbe reso come contenitore il contenuto con il suo giusto peso. Allo stesso modo la magnifica Elena Bucci, magistrale nella sua interpretazione e sofferenza. Cosi intensa!

Molto suggestive alcune scene, quella delle pagine che volano intorno a una palma, quella del respiro nelle stesse pagine prima di morire. Da annotare il valore della fotografia di Daniele Ciprì.

La regia è per inquadrature laterali, alterna spazi ampi e vuoti, scale e porte chiuse, con interni ricchi di dettagli e sguardi, e poi paesaggi di lago su cui si sovrappongono gli inebrianti versi.

Dal 20 maggio nei cinema.