La regola dei giochi

È proprio vero che la violenza ricade sul violento, e il cacciatore finisce nella trappola che ha preparato per la sua preda. (Sir Arthur Conan Doyle)

Il “Gruppo della Creta” produce al TeatroBasilica: “La Regola dei Giochi”. Cinque atti unici: “Ucronìa o va tutto bene”, “Soldato”, “Il Regno”, “Matteo” e “Squali, uno studio marino” con la drammaturgia di Anton Giulio Calenda e la regia di Alessandro Di Murro. 

Protagonisti: Valeria Almerighi, Matteo Baronchelli, Jacopo Cinque, Alessandro De Feo, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia e Bruna Sdao.

Sono cinque opere caratterizzate da dialoghi stretti e crudeli, da una messinscena semplificata ed essenziale, tale da rendere fortemente evocativa la parola che diventa il luogo irriducibile per ogni vissuto psicologico nel suo contesto e costruzione di relazioni difficili e incomprensibili.

Dei cinque atti abbiamo visto “Matteo” e “Il Regno”, ed entrambi i testi ci sono apparsi con significativi scopi dialettici dell’assurdo.

Il primo “Matteo” mette insieme due persone in una coppia spesso divisa da un tavolo per il pranzo. E il tavolo per il pranzo è allestito per sembrare celebrativo di momenti quotidiani, ma di sconfitta. Un altare al sacrificio, alla sopportazione, all’abitudine.

Ma all’abitudine non ci si abitua, come pure si sostiene da più parti, e allora queste due persone, che soffrono a stare insieme, legate da tragedie intime loro malgrado condivise, seduti di fronte forzatamente per il pranzo, cercano estenuantemente oggetti di allontanamento, di distanziamento pur di non sfiorarsi. E il gioco perverso è proprio quello di non sfiorarsi, tenere sospesa quella misura del dolore collaudata, la distanza necessaria senza scardinarsi da quell’incastro, che resiste, insiste, soffoca e uccide, ma che pure mantiene quella coppia in quella assurda presupposizione comune voluta “io devo restare e soffrire con lei/con lui”.

I dialoghi sono interessanti, matematici, asincronici. Lei dice una frase, lui un’altra diversa, lei continua con un altro discorso ancora, e a quel punto lui risponde al primo argomento usato da lei, e così via fino all’infinito, per composizioni che solo un terzo può comporre mentalmente, ma a fatica, seguendo una logica del confronto a scacchiera, impostata magistralmente dai due perché non sia sostenibile alcuna conclusione, né degenerazione, in un disequilibrio perfetto. Solo comprendendo quel codice, deciso apposta per non capirsi, per spostare i problemi, allegandone uno appena proposto all’altro successivo non ancora suggerito, cioè senza affrontarli veramente, in una catena che stringe le vene dell’esistenza per non volere approfondire sentimenti e delusioni, la visione dell’incastro psicologico ci appare alla fine chiara: questi due sono due funamboli del dolore su uno stesso filo mosso a mettere in pericolo ma a non far cadere mai l’altro.

Del resto non succede proprio a tutti noi lo stesso? Crediamo di parlare con l’altro nelle nostre relazioni impossibili e invece mettiamo tagliole per ratti, trappole sadiche e masochiste.

Gli argomenti si sovrappongono senza ordine, dando la precedenza agli umori, e senza soluzione di continuità: raffiche di vento, temporali di lacrime, proiettili, colpi sferrati soltanto per ferire, confondere, distrarre l’avversario e mai affrontare il tema principale che entrambi invece conoscono molto bene, ma solo interiormente: non ci amiamo più e dovremmo interrompere questa macchina terribile, questa tutta nostra, unica, tortura dialogica che sapientemente abbiamo costruito nel tempo. Ma, si sa, le torture dialogiche, le dinamiche familiari, la comunicazione che apprendiamo nella crisi relazionale, sono le più difficili da scardinare.

Il secondo testo messo in scena è più particolare, ma sempre comunque affronta il tema delle relazioni, dell’apertura all’altro, dell’evoluzione intellettuale data dal confronto dialogico e non incatenato al gioco perverso di una comunicazione asfittica, dove le regole dovrebbero essere non per non farci capire, come queste opere tentano di dimostrarci.

Il Regno”. C’è un uomo seduto su una sedia davanti a qualcosa che lo inebetisce e che lo spinge a partecipare a una folla invisibile di consensi e dissensi. Per cui si alza e invoca, inveisce, urla contro, oppure si incanta come di fronte a qualcosa che lo inebria sessualmente. Si eccita e si spegne ma senza parlare, senza comunicare, neanche piacere, solo abbrutimento, soltanto interagendo con un non verbale che dopo un po’ diventa più che esplicito ed esplicativo. Quella sedia è su una pedana, un piedistallo, e quell’uomo invece di formulare ragionamenti, un pensiero qualsiasi, si riduce a fare gesti e versi, ma noi alla fine li capiamo, perché diventano iconici, simbolici, sintetici di una interazione virtuale a cui evidentemente apparteniamo per cultura consolidata.

Quell’uomo sta parlando al mondo, crede di parlare al mondo, da dentro la sua stanza…e, a ogni cosa che succede davanti a lui (a livello scenico e sonoro sembrano dei terremoti), in un punto di fuoco prospettico verso di noi, il pubblico, quella stanza si rimpicciolisce, i confini si stringono, e i suoi versi gutturali diventano sempre più primitivi e lontani. Interviene un’intervistatrice a tradurre in acronimi le deduzioni che lei fa dei discorsi immaginari di quell’uomo, che ormai è solo e arrabbiato contro tutti.

L’operazione scenica complessiva di questi atti messi insieme è interessante, gli attori un po’ acerbi, i testi particolari, la regia con alcuni importanti spunti di innovazione.

I cinque atti unici verranno messi in scena per una settimana al mese, durante la stagione teatrale. Così dopo i primi allestimenti di settembre ottobre e novembre, le prossime repliche saranno: 16 – 19 dicembre.

Chiara Merlo