Oreste. Quando i morti uccidono i vivi

“Per me, che si parli di psicologo o di schizofrenico, di maniaco o di psichiatra è la medesima cosa: sono tanti i ruoli, all'interno di un manicomio, che non si sa più chi è il sano o il malato.” Franco Basaglia

Quando i morti uccidono i vivi. Ma chi sono i morti e chi sono i vivi. E, soprattutto, sono davvero morti, i morti, o sono più vivi dei vivi che hanno bisogno di loro per sapere che esistono?

Su questi e altri temi si riflette in Oreste. Quando i morti uccidono i vivi, lo spettacolo diretto da Giuseppe Marini con Claudio Casadio e il testo di Francesco Niccolini, prodotto da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori e realizzato con Lucca comics.

Al centro, la questione del rapporto tra malattia mentale e proiezioni della mente, siano esse demòni da esorcizzare o costruzioni surrogate messe in atto per sopravvivere.

In questo caso siamo di fronte al caleidoscopico mondo costruito da un uomo recluso in pochi metri quadrati, che immagina di fare un viaggio sulla luna, tema assai frequentato dalla letteratura e dal cinema.

D’altra parte cosa c’è di più immediato per sfuggire alle strettoie di questo mondo cattivo che volerlo lasciare?

La prima cosa che viene proiettata sul fondale infatti è proprio l’immagine dei pianeti che orbitano in un cielo stellato, il primo contraltare di quella stanza di manicomio che sa di ruggine e di castigo, se non fosse per quel tavolo rimediato pieno di pennelli e vernici. L’unico segno che disdice il degrado. Un piccolo indizio che ci racconta che dentro quei muri batte un cuore d’artista.

Pare infatti che il testo sia ispirato a un malato mentale realmente esistito, internato nel manicomio di Volterra prima della legge Basaglia, che lasciò memoria di sé attraverso un’incisione realizzata con una fibbia del gilet.

Il suo nome non era Oreste ma egli stesso si presentava come tale. L’input, probabilmente, che ha indotto l’autore a inventargli un passato sulla falsariga della tragedia greca, chiamando dentro sorella, padre, madre, Pilade e pure Ermes, il messaggero di una verità seppellita che gli scaraventa addosso.

Oreste ha ucciso la madre che aveva a sua volta ucciso il padre. Su questo humus eschileo germina il passato di Oreste, che ritorna negli incubi e nei ricordi alterati, compreso quello della sorella divorata dai porci.

Non sappiamo se c’è e dov’è, non sappiamo se quel che racconta sia frutto di verità o immaginazione o di una contaminazione di entrambe, ogni volta ristrutturate per sopravvivere. Però è lei, dolcemente incombente, che prova ad affrancarlo dai suoi sensi di colpa, è lei che gli dice che sarebbe bastato un po’ più di amore e tutto sarebbe andato diversamente.

Ma è possibile riavvolgere il nastro? Oreste la implora a restare (‘Se resti qui sento che è possibile’) eppure lei se ne va, sparisce.

E sparisce lasciandogli il dubbio di non esserci stata. Come Ermes che un attimo prima di rivelargli di avere scannato la madre, gli aveva detto ‘lo sai che io non esisto’.

Ma allora? Allora è libero. Se il messaggero non esiste non è esistita la colpa. Forse. E dunque è libero. Se così è, Oreste è libero. Glielo conferma persino il dottore: ‘sei libero ma non guarito’.

Ma se non sei guarito, sei ancora malato. Sei ancora preda delle allucinazioni e degli inganni della tua mente insana che ti fa credere, per esempio, che chi ti sta parlando, in realtà non esista. Ma è insana davvero una mente che sa smascherare l’inganno?

O è un’avvisaglia di guarigione? Ed è davvero un inganno quello di Ermes che nega se stesso?

Non è un caso che a mettere in dubbio la sua stessa esistenza sia il portavoce per antonomasia. Colui che deve trasmettere e interpretare. Colui che concede e sollecita l’interpretazione. Decidi tu se esisto o no. In un caso soltanto sei sano. Ma in entrambi i casi sei libero. Io ti suggerisco di approfittare in ogni caso della libertà che ti viene accordata. Vai, rischia, altrimenti avrai di che rimpiangerla. È di Ermes, la voce, o è la voce della coscienza che si solleva da un angolo buio della mente in castigo? Se sono libero devo essere guarito.

Non è nemmeno un caso che arrivi dal dottore quella che è, a tutti gli effetti, una sentenza. Libero ma non guarito. Perché è in questa sentenza che si concentra tutto il carico di un pezzo di storia della psichiatria con tutti i suoi paradossi e le contraddizioni intestine. Il dottore informa un malato di mente sui mutamenti in corso negli ospedali psichiatrici dopo la legge Basaglia. E il malato di mente deve decidere se andare o restare.

Del testo di Niccolini questo è forse il momento meno plausibile, un po’ didascalico e fuorviante, che però spiega anche le difficoltà non risolte e le incongruenze che gravano tuttora sul tessuto sociale e sulle famiglie.

Ci sarebbe da aprire un file dedicato ma non è questa la sede. Certo è che il testo rinnova un bel po’ di questioni lasciate in sospeso.

Oreste è guarito? O, meglio, la presa di coscienza è guarigione? Oppure non basta sapere che Ermes sei tu, che tua sorella non c’è e se qualcuno ti ha aiutato a riavvolgere il nastro non è per aiutarti a ricominciare da capo. Ché non si può mai ricominciare da capo. Continuare, si deve. Nient’altro. Fino a provare a uscire da lì, eseguire le istruzioni e rischiare, provare a giocarti le quattro carte che hai e poi perdere, tornare indietro sconfitto perché il mondo là fuori ti terrorizza e tu sei abituato a un altro terrore. ‘Sei un cazzone’ ti dici da solo facendo finta di essere Ermes. E siccome ti credi, infili la testa dentro un sacchetto di plastica e avvii il tuo conto alla rovescia.

La luna ti aspetta, come aspetta i liberi che non sono guariti.

Claudio Casadio da solo sul palcoscenico è un segno forte, una presenza che fa tutto il possibile per occupare lo spazio e per animarlo ora dilatandosi grazie alla sua figura pletorica e performativa, ora facendosi quasi da parte per lasciare spazio alle voci che lo agitano e interpellano e che prendono forma attraverso i corpi grafici disegnati sul fondale, utilizzato proprio per ricevere e restituire le sue proiezioni.

Ermes, la sorella, il dottore. Ma anche la luna, il cortile dove giocava da piccolo con la sorella e i maiali che se la sono mangiata, il caseificio del nonno, il mondo di fuori, con il viale e la stazione, il bar, il caffè con lo zucchero.

Forse lo spettacolo patisce una saturazione di immagini, una ricerca a volte forzosa come a voler contrappuntare per forza le parole e anche l’uso della tecnica del grafic novel a tratti mi è parso eccedente.

L’idea non è male ma un po’ troppo cavalcata a discapito della proporzione tra l’ attore e le altre figure.

Quello che invece avrei voluto vedere è una deflagrazione, un urlo, una rottura forte, non già una rassegnata presa di coscienza, come a voler rompere la crosta terrestre per fuggire dal mondo che ti tiene legato. Me lo sarei aspettato perché i presupposti c’erano tutti e ci sono ancora.

L’Oreste
quando i morti uccidono i vivi
di Francesco Niccolini
regia Giuseppe Marini
con Claudio Casadio
illustrazioni Andrea Bruno
scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio
costumi Helga Williams
light design Michele Lavanga
musiche originali Paolo Coletta
tecnico video Marco Schiavoni
voci Cecilia D’Amico (sorella)
Andrea Paolotti (Ermes)
Giuseppe Marini (dottore)
Andrea Monno (infermiere)
Tournée:
Teatro Mentore, Santa Sofia (FC), 8 gennaio 2022.
Teatro Rossetti, Trieste, dall’11 al 16 gennaio 2022.
Teatro Walter Chiari, Cervia (RA), dal 18 al 19 gennaio 2022.
Teatro Sannazaro, Napoli, dal 21 al 23 gennaio 2022.
Teatro Koreja, Lecce, 28 gennaio 2022.
Teatro Kismet, Bari, dal 29 al 30 gennaio 2022.

di Alessandra Bernocco