Sola

Primo atto di un carteggio strappato alla polvere

Cara la mia amica dalla bella Italia, rieccomi a te. Sei mesi di silenzio valgono bene due righe. Sappi prima di tutto che sono mesi in cui non mi accorgo di essere viva. Qui la temperatura non è ancora scesa sotto i nove gradi e mentre ti scrivo mi chiedo perché parlarti del clima prima di tutto. Sarà che dentro il centro si muore di freddo, così freddo che nemmeno si avverte la fame. Manca tutto e i rifornimenti sono interdetti. Diciamo interdetti. Fuori la polvere ci impedisce persino di respirare. Chissà quanta polvere abbiamo ingoiato. Chissà quanta ne dovremo ingoiare. I calcinacci sono ovunque, ovunque è uguale a nulla. Ovunque è ground zero. Ground zero è ovunque. La nostra volontà è impotente. La nostra tigna beffata. I nostri occhi sono secchi di umori. Già: gli umori. I miei devastanti sbalzi di umore. Ground zero anche quelli. Mai avrei pensato che le loro buffe impennate di euforia fuori luogo, le loro discese, le loro corse forsennate verso il fondo del pozzo potessero placarsi. Che terapia formidabile questa guerra civile. La scuola è rasa al suolo come tutto il resto. Ma che vuoi che importi se non ci sono bambini a cui insegnare qualcosa. Ho persino nostalgia di quel verdolino improbabile dei banchi di formica che detestavo. Ho nostalgia dell’odore nauseabondo di minestra di lenticchie o di una semplice insalata di pomodori e pane fritto. Ho nostalgia della mensa insieme a quegli esserini vocianti che non vedevo l’ora di mettere a tacere. Davvero, ho tanta nostalgia di quelle grida insopportabili che mi facevano maledire il mio ruolo e il mio lavoro: quel lavoro tanto ambito e tanto importante che però non avevo scelto. La giornalista, non la maestra, era da sempre il mio desiderio. L’mp3 per fortuna resiste e mi aiuta a ricordarmi che testimoniare è possibile. Utile non so, ma almeno possibile. Gli parlo dentro mentre cammino e immagino te che mi ascolti, angosciata e incredula, continuando a chiederti il perché non abbia voluto approfittare della tua accoglienza. Qui si marcia a rilento su tutti i fronti. A rilento! Che bizzarro parametro il tempo in un posto dove il tempo non c’è. Ground zero anche il tempo. Domani non c’è e se c’è sarà peggio di oggi. Non si vede che questo tempo presente, che ci annienta con lui. L’illusione di una tregua è svanita dopo l’ultima promessa tradita. Il rumore è sempre lo stesso. Bombe. Nient’altro. Bombe che tuonano in un silenzio tombale. Sono mute persino le grida della gente che scappa. Le smorfie dei volti sono urli feroci ma la voce non c’è. La disperazione passa anche attraverso la voce e la strozza in gola. Cammino su una strada che pare sterrata e invece è divelta a causa del bombardamento di due giorni fa. Tutto adesso è immobile e grigio. Anche il cielo è uniforme, innaturale nella sua compattezza, senza luce né nubi. O forse è la polvere che ne impedisce la vista. Dalla parte opposta della strada intuisco il rosso di un’automobile di grande cilindrata, ormai solo carcassa. Poteva appartenere a una famiglia benestante, persino felice, chissà, quelle che accompagnano i figli a scuola e magari si fermano per la colazione al bar. Se abitavano in questo quartiere sono morti l’altra notte e fanno parte degli ottocento civili di cui avrete o non avrete avuto notizia. Speriamo che almeno i bambini non se ne siano accorti. Sfioro la carrozzeria con la punta dell’indice e sento raschiare la polvere. Sono tentata dal scriverci sopra una frase ma poi mi censuro e mi dico cretina. Cretina – dicevo- che cosa vuoi scrivere se non c’è nessuno che legge. Mi sono allontanata da sola dal centro di accoglienza con la scusa che scusa non è di raccontare da qualche parte quel che vedevo. Ma le immagini le dicono meglio le immagini stesse. Lo vedi questo? È un cuscino ricamato ritrovato quasi intatto sotto macerie tutte uguali. Ecco sì: sotto le macerie tutte uguali sopravvivono i segni di vite diverse. C’è gente pacifica e turbolenta, arrogante e remissiva: troppo remissiva. Ci sono tanti rimpianti e tanti castighi, qualche speranza e un po’ di luce lontana. Ci sono donne quasi contente o profondamente infelici, madri giovani e no che darebbero la loro pelle per liberare le figlie. Qualcuna avrà lavorato persino fuori casa. Commercianti, impiegate o attiviste sotto le spoglie di commercianti e impiegate. E maestre. Quanto si può essere attiviste facendo la maestra! Alcune leggevano in segreto i versi di Adonis; qualcuna avrà mandato a memoria i versi di Adonis; molte ancora non conoscevano i versi di Adonis. Alcune ricamavano, tutte preparavano i dolci di miele. Su tutti le bombe sono state democratiche. Loro mica ti chiedono prima se sei disperato o felice, se sai leggere e scrivere, se sei in pace o in guerra, se bestemmi o se preghi o se fai entrambe le cose perché entrambe le cose sono entrambe le cose. C’è un lenzuolo bianco che penzola senza vento da un pezzetto di balcone rimasto aggrappato a una colonna portante, c’è un seggiolino di plastica gialla appartenuto sicuramente a un bambino felice, ci sono sportelli rotti di vecchie credenze, gambe di tavole monche, pezzi di legno e di vetro rotto: tanti pezzi di vetro rotti che erano porte e vetrine e finestre timidamente affacciate su una città fiduciosa che è stata di nuovo tradita. Troppo poco è durata la tregua. E quanto sono fasulli gli accordi tra chi è allenato a fare braccio di ferro. Non credere mai alla pace tra i forti né ai patti d’acciaio. Non credere nemmeno ai soccorsi perché non arrivano o arrivano tardi. E magari arrivassero tardi! Lo sai? Dai convogli di aiuti si sono fregati di tutto. Cibo, sapone, medicine, coperte. I rinforzi umanitari regalati ai propri amici o rivenduti al miglior offerente. I funzionari intelligenti, i collaboratori solidali. Troppe sono le mele marce. Ve lo dicono questo? No, non ve lo dicono no, sennò come potrebbero continuare a rubare? Vorrei che saltassero in aria. Hai presente due forze opposte, ma forti forti, fortissime? Con qualche pedina che migra da una parte all’altra, camuffata a dovere, con il testimone nascosto sotto la sottana o la cimice infilata nella tasca interna del doppiopetto? Mi capisci, vero? Un fronte a fronte spietato senza esclusione di colpi. Immagina uno scontro frontale tra due automobili alla massima velocità. Ma pilotate da fuori. Con una specie di telecomando. Ci sei? Che succede? Succede quel succede quando due forze uguali e contrarie si accaniscono sullo stesso bersaglio. Il bersaglio salta in aria sputato fuori come la lava e i piloti incolumi si godono lo spettacolo e si contendono il premio, mentre sciacalli e avvoltoi rimestano avidi nei rimasugli. I rimasugli. Cammino facendo molta attenzione a non inciampare, sforzandomi di guardare a terra – ‘guarda sempre dove metti i piedi’, ricordi?- ma ai lati le case straziate urlano tutto il dolore del mondo. Non ascoltarle è impossibile, visto che ora le orecchie sono solo le mie. Non so far altro che guardare e ascoltare. Se non avessi te a cui raccontare qualcosa non ci sarebbe ragione nemmeno di scrivere. La notizia fresca è che i gruppi anti-governativi hanno attaccato indiscriminatamente le aree governative e impedito ai civili di fuggire. Qualcuno sopravvive nelle case bombardate, senza luce né acqua. Qualcun altro trova riparo presso di noi, ma riparo da cosa? Hanno bombardato l’ospedale e le scuole: bombardate o convertite in dependance militari. Dependance. Senti un po’ che parola mi è uscita. Sarà la nostalgia delle nostre conversazioni lontane, quasi scanzonate, mentre sorseggiavamo una tazza di tè. Una tazza di tè. Ricordi? Fino a quando vuoi che preservino noi e le nostre povere pennellate di vita, nate sbiadite e tenute nascoste. Ogni tanto riaffiora la tentazione ingannevole che ho abbandonato da un po’: abbellire l’orrore. Accondiscendere, forse. Ma cosa c’è di più orribile di accondiscendere di fronte all’orrore? Cosa c’è di più ingiusto? È questo che vogliono: accondiscendenza e silenzio. Ci pensavo ieri mentre ripulivo le foglie dallo strato di polvere per riporle in un vaso o in una bottiglia. Cretina! Tu ripulisci le foglie e lascia messaggi sulle portiere. Eh sì. Avevo appena finito di scrivere ‘pace’ prima di dire a me stessa ‘cretina’. Poi ho cancellato e ho scritto in inglese ‘intelligenza cretina’. Torno indietro perché non sono ancora pronta per fare rientro. Vicino all’automobile rossa ci sono tre bambini vestiti di abiti buoni. Vedo i colori prima di tutto e intuisco una certa infantile allegria. Sento le voci e sono voci intonate. Sento persino le risa e sono mesi che non sento risa accordate. Mi vedono e si spostano ridendo più forte. Sono belli, bellissimi e il muso sporco di più. Più ridono più il loro passo si fa saltellante e veloce, più li osservo più il mio rallenta fino a fermarsi. Guardo loro e la macchina rossa coperta di polvere. Sulla portiera c’è disegnato un cuore rossissimo ancora umido di saliva. Eppure ovunque è ground zero. Ground zero è ovunque.

Alessandra Bernocco