“Nella solitudine dei campi di cotone” e la poetica dei contrari

La distanza più breve tra due punti è data da una linea retta.
(Archimede)

Bisogna essere almeno in due per sentirsi soli
(Mirko Badiale)

Innanzitutto la solitudine, poi l’abbandono, la segregazione, l’astrazione dei sentimenti. Il vuoto.

Di fronte a ogni incontro, il tentativo di una relazione è su un piano cartesiano: la funzione di una retta su cui si esprimono due punti, fattori di esistenza per quell’unica retta, perché è da quei due punti che quella retta passa, non altrimenti. Non cercarsi, non incontrarsi, ma trovarsi in ogni caso per quella necessaria geometria del piano. Mi viene in mente la regia di Dogville di Lars Von Trier…dove la scena teatrale è proprio su di un piano con le tre dimensioni esistenziali disegnate a terra con il gesso, e le dinamiche relazionali sono percorsi geometrici, necessari proprio su quel piano.

Qui il vuoto è invece rappresentato con tutta la scena vuota, nessun appiglio, nessuno schema, nessun disegno, e la linea da percorrere per seguire la trama è segnata soltanto dalle luci, due riflettori che aprono un varco (im)possibile fra i due soggetti in scena, l’uno rivolto verso l’altro, ma fermi, due punti posti sulla stessa retta immaginata, e immaginata trasversale rispetto agli spettatori: una diagonale dei pensieri luminosa, alla ricerca impossibile del desiderio. Non si raggiungeranno mai.

Il testo parla di un venditore e di un compratore, per una visione capitalistica anche dei sentimenti, ma i due soggetti, i due punti, possiamo considerarli semplicemente i parametri di una relazione, di un incastro emotivo, di un paradosso esistenziale, e come dice il regista, possiamo anche considerarli l’attore e lo spettatore che cercano il vivo del loro teatro. Il teatro, quei fumi di luce, quella via di luce, che ci permettono di interiorizzare ogni ipotetico discorso, al buio, in solitudine, verso le parole in scena rappresentate da qualcuno per noi soltanto, in quel momento.

Koltès è uno scrittore particolare, un drammaturgo molto controverso, problematico, non riesce a scrivere, torturato a lungo dal desiderio della scrittura, vive spasmi di creatività che si concretizzano in frammenti, parti rotte che tira fuori senza apparente continuità, schegge dolorose, taglienti, riflettenti, e così è anche in questo dialogo, che infatti sembra più un monologo a due voci, dove chi parla tenta di dire ogni cosa consapevole di un suo ostinato, rabbioso contrario. Come in una esperienza di autocoscienza.

Il risultato, poetico, lirico, struggente diventa il definitivo collasso del dialogico per una introspezione dell’altro che è in noi e che ci appare assoluta. Noi di fronte a una scena a due, ma quella scena è invece un ricordo, un trauma, un vecchio discorso fra due amanti perduti, che è solo nostro, il conflitto esistenziale fra diversi, soggetti diversi che si strappano a brandelli pur di avere un’unità di significato in noi. In me.

Il regista ha immaginato un’attrice abbandonata, ormai da troppo tempo alle sorti del suo palcoscenico, il vestito è di famose tragedie romantiche, scucito e consunto, tenta di sedurre il suo pubblico come fa un venditore, esprimendo assai spesso inchini e gesti di  ringraziamento. Di fronte a lei un avventore, mal vestito, cinico e diffidente, un potenziale cliente, uno spettatore, un casuale, occasionale passante, dall’aspetto un po’ rozzo, ma dal sentire molto contemporaneo e struggente. Un irriducibile viandante solitario del nostro tempo. Un camminatore che vuole camminare lontano dalle folle consumistiche.

Si rifiuta di andare incontro, di essere compiacente, di commiserare, comprendere, e rifiuta ogni proposta di conciliazione, assuefazione.  Non accetta quel dramma. Si dimostra critico e anaffettivo, un nichilista dei nostri giorni, senza nessuna voglia di farsi convincere. Ma la retta insiste e li avvicina. Certo non potranno incontrarsi mai, nonostante venga loro imposta la stessa direzione, uno da un lato e l’altro dall’altro, e infatti non si incontreranno mai. Forse desiderano cose diverse, o forse provano desideri non interpretabili, forse non sanno cosa desiderare, o addirittura non conoscono proprio cosa voglia dire desiderare per loro. Si annidano intorno all’oggetto del desiderio, uno offrendolo (offrendosi) e l’altro decidendo o meno se volerlo, ma senza capire fino in fondo quale sia poi il desiderio stesso che lo muove. O l’avversione al desiderio, perché imposto.

Nella mia mente risuonano ancora le mezze frasi/citazioni, esaurienti, commoventi (mi appartengono?), eppure così esplicative. Frammenti: “…il desiderio di un compratore è nella sua essenza così malinconico!”; “che poi, il desiderio è così diverso dall’oggetto del desiderio”; “tutti i miei ‘no’ hanno finito per scontrarsi con tutti i tuoi sì”; “alla fine cosa è stato di ciò che manca a tutti e due?!”; “uno viene colpito dove già è stato colpito”; “l’ingiustizia sulla terra non è poi così ingiusta”; “la dolcezza è nei dettagli”; “la sofferenza è davvero sofferenza quando è strana, quando uno proprio non se l’aspetta”; “uno muore, poi cerca di capire di cosa è morto…e alla fine lo capisce!”

La regia è molto suggestiva, quanto le parole, gli attori diametralmente eccellenti, anche se mi sono affezionata di più, da questa parte, al compratore/spettatore/amante disilluso (non deluso, disilluso!).

visto al Teatro India

di Bernard Marie koltès: “Nella solitudine dei campi di cotone” – traduzione di Anna Barbera

con Federica Rosellini e Lino Musella

regia: Andrea De Rosa

foto di scena: Andrea Macchia; suono: GUP Alcaro; luci: Pasquale Mari