Cirano deve Morire

Il mio cuore si nasconde sempre timidamente dietro la mia mente. Comincio a far cadere le stelle dal cielo, poi per paura del ridicolo, mi fermo e raccolgo piccoli fiori di eloquenza.
(Edmond Rostand)

Rendo grazie a Dio per avermi dato un'anima abbastanza ragionevole da non credere a tutto ciò che il mondo dice, dal momento che tutti possono dire tutto. Se non fosse così, avrei applicato alla tua bile un antidoto più solido e potente del discorso.
(Edmond Rostand)

L’idea è buona e i tre sono bravi, indubbiamente. Perché un conto è una canzoncina in rap, un conto è rappare una poesiola, un altro è reggere uno spettacolo intero. Senza perdere il filo, senza ingarbugliare il linguaggio, senza ritrovarsi con la lingua tra i denti. “Muovete la lingua, da destra a sinistra, dall’alto in basso, muovetela avanti e indietro, muovetela in ogni dove”. Era Giorgio Albertazzi che dava suggerimenti agli allievi, un po’ di anni fa. I tre non erano tra loro, ma la lezione l’hanno imparata lo stesso. Buona tecnica e tante prove, sicuramente.

Parliamo di Cirano deve morire, lo spettacolo allestito per la Biennale Teatro 2019, già vincitore dell’edizione under 30 precedente, recentemente visto al Teatro Vascello di Roma (dove è in scena fino a domenica 4 dicembre 2022).

Si tratta di una radicale riscrittura dell’opera di Edmond Rostand a cura di Leonardo Manzan (anche regista) e Rocco Placidi, con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini e Paola Giannini, in cui il rap è protagonista assai più della storia a cui si ispira.

Della commedia originale accoglie la struttura in rima e lo spirito di denuncia e provocazione, ma quasi completamente emancipato dai contenuti, e ne fa contenitore per veicolare di tutto e per prendersela con tutti: critici, popolo web, comunicazione virtuale, premi Ubu che vinci solo se fai sei ore di Orestea in greco antico (al netto dell’iperbole, ne siete davvero sicuri?), i diritti d’autore e la Siae che ci marcia, Massimo Gramellini e i programmi tv che inseguono l’audience, il triangolo di Renato Zero, Shakespeare, Moliere, Cechov e la sua Nina che lo psicologo deve trovarselo bravo, una nutrita sportina di citazioni attinte anche al miglior cantautorato, il rapporto tra il presente e il passato che indora i ricordi, la realtà che fa schifo, stringi stringi, come fa schifo a tanti bravi adolescenti incompresi, a torto o a ragione.

Ma il rischio è che i bersagli vengano uno a uno inghiottiti nel flusso, ammortizzati dalla forma e tutto sommato uguagliati di fronte alla rabbia del rapper, che risulta accademica.

L’impressione è quella di un grande lavoro, di una perizia sicura che a tratti ha del virtuosistico, ma un po’ fine a se stessa, e il gioco, una volta capito, non riserva più grandi sorprese.

Con delle buone idee ma non perseguite, come la sfida al pubblico in sala, lanciata da Cirano attraverso Rossana, con tanto di microfono offerto allo spettatore, ma lasciata cadere nel momento stesso in cui sta per essere  raccolta. 

Solo verso la fine, quando il rap lascia il posto a una recitazione più libera, la storia che conosciamo si piega al lirismo dei sentimenti e li restituisce con una bella emotività, soprattutto attraverso il personaggio di Rossana, che dall’alto di quel balcone, qui reso con un’agile struttura metallica, conferisce ai versi in rima una verità interiore, sofferta, quasi improvvisa, com’è improvvisa la scoperta dell’inganno d’amore.

liberamente ispirato a Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand

con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Paola Giannini

regia Leonardo Manzan

drammaturgia Leonardo Manzan, Rocco Placidi

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

luci Simone De Angelis

progetto sonoro Franco Visioli

musiche Alessandro Levrero, Franco Visioli

produzione La Biennale di Venezia

di Alessandra Bernocco