Amore e Lotta

"Dove me l’hanno portato […] Morirò, se non lo so! Se non me lo dite, morrò! […] Ditelo voi come fu trovato! Voi che accorreste le prime alle mie grida: come fu trovato?"
da La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello

Matteo Tarasco dirige “Amore e lotta – Dico il vero”, uno spettacolo su Pier Paolo Pasolini nato dalla scrittura drammaturgica di Katia Colica.

Esiste uno stato della coscienza capace di farci sperimentare processi mentali consapevolmente allucinatori. Una sorta di terra di confine nella quale luci, colori, suoni, sensazioni fisiche e pensieri si alternano in una condizione che ci vede affacciati su quella soglia compresa tra la veglia e il sonno. È quello il momento in cui ognuno riesce ad esplorare gli strati più profondi della propria anima, rievocando ricordi, paure ancestrali, forze archetipe, così da trasformare tutto in una lucida visione degli strati più profondi della percezione. Immagini come scandaglio esplorativo della nostra interiorità e del personale discernimento.

È questa la sensazione che coglie lo spettatore davanti alla messinscena teatrale di PPP Amore e lotta. Dico il vero, lo spettacolo prodotto da Officine Jonike Arti e nato dalla scrittura drammaturgica di Katia Colica.

Un quadro surrealista dove la dimensione inconscia si trasforma in una realtà fatta di  immagini e parole, tradotte in un’azione teatrale perfettamente orchestrata da un regista riconosciuto come Matteo Tarasco, il quale può vantare, tra le altre cose, di essere il  primo e unico italiano nominato membro del Lincoln Centre Theatre Directors Lab di New York.

Un omaggio a Pier Paolo Pasolini, un racconto intimo che si innesta su percorsi dell’anima, così da riuscire ad indagare gli abissi emotivi di tutti i personaggi presenti in scena.

Tarasco rappresenta l’intreccio familiare e insieme la vita bruscamente interrotta dei protagonisti: Pier Paolo, la madre Susanna, il fratello Guido e del padre Carlo Alberto. Quest’ultimo personaggio in absentia e di cui si avverte la presenza su una poltrona vuota per tutto il corso della scena. Sono presenze in divenire, pensieri e domande che si uniscono a dei corpi trasformandoli così in un atto puro, sostanza immutabile alla ricerca del proprio essere in quanto essere, sconfinando nella sfera della metafisica di reminiscenze aristoteliche.

foto di Marco Costantino

L’azione scenica si svolge in un tempo fuori da ogni tempo, capace addirittura di superarlo, raggiungendo quella stessa dimensione di stato ipnagogico in grado di dare forma al flusso della nostra coscienza negli attimi prima di addormentarci. Allo stesso modo, nell’intreccio continuo di immagini e pensieri, incontriamo Susanna, una madre impegnata a mettere insieme pezzi del proprio vissuto, per ricostruire le vicende che hanno determinato la morte prima del figlio Guido e poi di Pier Paolo.

Un massacro per il quale bisogna stabilire la verità, rintracciare i colpevoli e dare le giuste risposte. Una madre alla ricerca dei figli smarriti, incolpandosi di averli persi, forse lasciandoli nel bosco. Vuole vedere, attraverso il racconto dei figli, la faccia dei lupi che li hanno sbranati, riducendone le carni in brandelli, corpi smembrati dalla cieca e rabbiosa violenza del loro stesso tempo.

Un tempo di guerra, di dittature e di consumismo. Una ricerca della verità che trova la sua unica àncora di salvezza nelle parole del figlio Pier Paolo, in quel “dico il vero” che lei ripete come un mantra, per ritornare al presente staccandosi dall’astrattezza di un tempo ormai passato.

Presenza spirituale che si aggira tra un dentro e fuori la scena, vaga con tormento e leggerezza, protetta da un delicato ombrellino, simbolo di distacco da una verità inaccettabile. Pier Paolo attraversa, ripercorrendola in un flusso di ricordi, la sua vita, luogo in cui si agitano fantasmi, si sente stanco e sconfitto nella sua eterna lotta d’amore, ma allo stesso tempo immortale grazie alla poesia, merce inconsumabile.

Il valore delle parole che rimangono ad occupare lo spazio dell’interiorità, così come accadeva con il canto lento delle nenie sussurrate dalla mamma quando era bambino, che gli traboccavano nel cuore e gli pesavano dentro le tasche. E poi c’è Guido, puro spirito, con la testa fasciata perché è lì che si agitano i pensieri che si trasformano in profondo patimento. Lui che vuole essere cercato e trovato, ma vuole anche capire perché il fratello, Pier Paolo, ha perso la strada di casa, perché non lo ha più raggiunto per coprirlo con quella bandiera che aveva appeso ai tergicristalli della sua macchina, per non fargli prendere freddo di notte. Guido, il soldato Ermes, partigiano morto a soli diciannove anni, per mano di altri partigiani in quel tragico eccidio di Porzûs di cui i fatti non vennero mai veramente chiariti. Guido quel fratello tanto amato e di cui Pier Paolo porterà con sé il rimpianto di averlo lasciato partire, dolore profondo per la sua morte e per la pena della madre davanti la perdita del figlio, lo scrupolo di non averlo saputo proteggere. 

foto di Marco Costantino

La regia di Matteo Tarasco riesce a restituire l’intimità dei rapporti familiari, gli aspetti che Pasolini intellettuale e poeta non avrebbe mai lasciato trasparire. Le fragilità di un uomo rimasto incompreso e ai margini di una società incapace di comprenderne la grandezza. Solo un’attenta direzione artistica poteva restituire le voci dell’anima attraverso una presenza scenica, quella carnale degli attori che allo stesso tempo si avverte come pura spiritualità.

La parola racconta attraverso i corpi, ma quei corpi sono restituiti solo come voce viva di personaggi ormai non più in vita.

Tarasco ci pone di fronte ad uno stato di perenne incertezza tra sogno e realtà, tra chi è vivo e chi non lo è più. Forse è solo una storia di fantasmi, forse sono tutti morti, presenze che si muovono in uno stato di perenne penombra, perché la luce, forse, potrebbe cancellarne la presenza e l’esistenza.

Tarasco è riuscito a creare la percezione di dimensioni parallele e ultraterrene grazie all’uso  della parola in grado di armonizzarsi con la scena, senza mai entrarci in contrasto. Quella stessa parola tanto amata da Pasolini, al punto da metterla al centro della riflessione su una nuova idea di teatro.

Il testo scritto, insieme alla performance degli attori in scena, diventa l’espediente per costruire una realtà potenziata, senza l’uso di nessuna tecnologia. Una realtà aumentata che Tarasco costruisce attraverso un attento ed esclusivo lavoro d’indagine interiore, determinando così un flusso di immagini e pensieri. Non c’è posto e non è neanche necessario utilizzare le moderne tecnologie, le mediazioni sono tutte interiori, le parole bastano come medium energetico.

A definire la vera dimensione del tempo è la voce fuori campo di un radiogiornale del 2 novembre 1975, quella che annuncia la tragica morte del poeta. Le parole di commiato di Alberto Moravia definiscono la dimensione della tragedia “. . . abbiamo perso prima di tutto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo. Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo”.

 

PPP AMORE E LOTTA. Dico il vero – Dopo un primo studio presentato nello scorso mese di dicembre in occasione del Globo Teatro Festival- Connessioni Periferiche e organizzato da Officine Jonike Arti, ha debuttato il 13 maggio 2023 al Teatro “F. Cilea” di Reggio Calabria.

Drammaturgia Katia Colica. Regia Matteo Tarasco, con: Americo Melchionda; Maria Milasi; Andrea Puglisi. Scene Melis-Lazzaro. Costumi Malaterra. Musiche Originali Antonio Aprile.  Produzione Officine Jonike Arti.

di Maria Concetta Loria

foto di Marco Costantino