Lino Musella tra Pasolini e Shakespeare

La vita abbatte e schiaccia l’anima e l’arte ti ricorda che ne hai una

(Stella Adler)

Il fatto che i due spettacoli con Lino Musella, unica voce in scena, siano stati rappresentati a ruota, tre giorni uno e tre giorni l’altro, offre bene l’occasione di riconoscere la versatilità di questo attore, defilato dal mainstream ma molto seguito e molto amato da un pubblico sempre più fidelizzato. Musella è  un creativo che inventa e reinventa  anche se stesso, oltre l’interprete al servizio di un ruolo.

E di questo le due performance alle quali abbiamo appena assistito al Teatro Vascello di Roma sono un esempio.

Musella e Pasolini la prima, Come un animale senza nome, drammaturgia a cura di Luca Esposito basata prevalentemente sul poema autobiografico Poeta delle ceneri; Musella e Shakespeare la seconda, L’ammore nun’è ammore, che, già dal titolo, indica il tipo di approccio: restituire trenta sonetti del Bardo “traditi e tradotti” in lingua napoletana da Dario Iacobelli. 

Ma nel primo caso Musella attore sparisce dietro le parole di Pasolini, non solo perché si nasconde dietro grandi occhialoni scuri, al leggio, quasi sempre seduto, quasi immobile, ma perché attraverso la voce pulita e la dizione ortodossa, ma in viscerale adesione con il pensiero, fa sì che le parole del poeta  acquistino una forza nuova, una densità corporale, una necessità mai esaurita, purtroppo. Qui l’attore non serve un ruolo ma innerva un pensiero che si fa corpo teatrale e noi, malati di conformismo, dimentichi vili di un briciolo di storia che forse, chissà, potrebbe venirci in soccorso o almeno darci una mano, ci sentiamo bastonati da un Pasolini sempre più vivo, incazzato, che non si rassegna. Con il suo pesante carico di contraddizioni e malessere ma innocente e puro, chiamato a “rispondere del selvaggio dolore d’essere uomini”. Parole che fanno male ma curano o almeno ci provano. Perché forse non essere bruti è ancora possibile, piccolo borghesi inclini a drammatizzare anche il quotidiano confort, esseri umani travolti nella tragedia che “non ci sono più esseri umani”, che da ben più di un secolo arriva fino a noi, contaminandoci tutti, noi e la nostra progenie incolpevole. Non è la stessa cosa andarselo a leggere o a rileggere, da soli. Non è la stessa cosa distillare le parole finché siamo in grado di reggerle, finché non ci disturbano poi basta, il tempo di un post sui social per dire la nostra dissociazione dal mondo con parole autorevoli e inattaccabili. Il teatro ci fa sentire attaccabili, anzi attaccati, esposti al rischio e vincolati a prendere parte.

Un’ora intensa che mi sento di consigliare a tutti, allineati e non. Come l’ora shakespeariana in stile partenopeo che è una goduria.

Dei trenta sonetti non saprei dire quanto ci sia di tradimento e quanto di filologico, il significato non sempre mi è arrivato ma poco importa, davvero.

Non siamo di fronte a una supponente riscrittura di Shakespeare come troppe se ne vedono e se ne sono viste, nemmeno a una rivisitazione pretestuosa che cavalca un classico per aprirsi una nicchia nel segno del ‘nuovo’. Qui c’è un’immersione giocosa e piena di garbo nei sonetti tra i quali Musella si muove senza solennità, ma con la familiarità divertita di un nipote che fa girare la giostra che gli ha regalato lo zio e poi  ci invita a salire. C’è lui che si diverte col Bardo, non già il Bardo sbandierato in una performance.

Se nel primo lavoro veniva fuori Pasolini e la forza sovversiva di un pensiero incandescente, qui Shakespeare se ne sta da parte, quasi fosse spettatore anch’egli, mentre in scena c’è un attore che si è cucito i versi addosso, adattati non soltanto alla sua lingua, ma al suo corpo,  alla sua voce, ai suoi guizzi. 

Eccolo allora muoversi con agio tra il palcoscenico e la platea, ammiccare al pubblico e invitarlo a terminare un verso lasciato in sospeso, arrampicarsi su una scala in centro alla scena e poi su un’altra, di lato, fino a raggiungere una postazione elevata, salire in piccionaia e da lì intercettare nel buio gli sguardi, infilarsi una parrucca e interrogare le carte oppure fischiettare in sella a un motorino soltanto evocato e correre per la scena come uno scugnizzo qualunque che gira per Napoli in canottiera, scendere tra il pubblico con gli occhi bendati e farsi guidare per risalire, parlare all’orecchio attraverso un tubo di gomma che arriva all’orecchio di uno spettatore alla volta, riservando a tre di noi il privilegio di sapere cosa diamine ha detto.

Teatro che osa senza oltraggiare grazie al lavoro serissimo di chi, come Shakespeare, ce l’ha con “l’autorità che mette il bavaglio all’arte” e se ne libera.

Entrambi gli spettacoli vivono di un dialogo intimo con la drammaturgia musicale, la prima di Luca Canciello, autore di una colonna sonora agita in scena; la seconda di Marco Vidino, con cordofoni e percussioni suonati dal vivo.

di Alessandra Bernocco