La bambola spezzata

ph Claudia Pajewski

I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza

(Hanna Arendt)

“La memoria custodisce ciò che si sceglie di custodire”. Una battuta cardine di un testo importante e durissimo, scritto da Emilia De Rienzo, presentato al Teatrosophia di Roma per la regia di Gianni De Feo e l’interpretazione di Irma Ciaramella e Alessandra Ferro. Quattro serate legate alla Giornata della Memoria che quest’anno più che mai avrebbe meritato una riflessione accorata.

“Dopo Auschwitz non si può più fare poesia”, scriveva Theodor Adorno in una celebre e controversa testimonianza. Anzi, scrivere una poesia diventa “un atto barbarico”. Perché? Perché di fronte all’orrore non c’è consolazione nemmeno nella poesia? Perché non è giusto cercare consolazione? Perché con la poesia vogliamo distrarci, dimenticando quello che invece dobbiamo ricordare?

Ma perché mai la poesia dovrebbe aiutarci a dimenticare? E perché mai dovremmo dimenticare?

La risposta più consona ce la suggerì qualche anno dopo Primo Levi: “Si può fare poesia dopo Auschwitz, ma non dimenticando Auschwitz”.

Ma cosa significa, oggi, non dimenticare Auschwitz? Può la memoria viva di un genocidio tollerare un genocidio e poi magari un altro e un altro e un altro ancora?

Forse questa è la domanda che la Giornata della Memoria dovrebbe risvegliare in tutti noi. Noi che possediamo la facoltà di scegliere cosa custodire e cosa dimenticare, ce lo domandiamo, noi, quale memoria futura farà di noi uomini o automi nelle mani del pazzo di turno con il mappamondo sul dito, da far ruotare a suo piacimento?

Scegliere cosa custodire è anche scegliere chi essere e chi non essere. È assumersi il rischio che la responsabilità della scelta porta con sé.

Essere madre o essere un soldato nelle mani del Fuhrer? Essere figlia o non volere più essere figlia di un soldato del Fuhrer che rivendica in modo granitico la sua alienazione?

Questo testo che fa incontrare due donne che per destino sono madre e figlia, pone allo spettatore una quantità di domande.  La possibilità del perdono se non c’è pentimento. La natura della natura umana: ci sono i buoni e ci sono i cattivi e chi sono i cattivi se non i caduti che non si rialzano nemmeno di fronte a una figlia che tende loro la mano? È possibile la pietas di fronte all’ostinazione  del male o è meglio scappare e cercare per sé un’orbita franca attorno cui gravitare? 

Il testo, tutt’altro che rinunciatario, sembra però indicare questa come unica ed estrema via di salvezza e lo fa lealmente, in modo scomodo e ‘disturbante’: attraverso l’incontro abortito tra una madre e una figlia. Una madre mai stata madre che forse vorrebbe essere figlia e una figlia che reclama la madre come una creatura rinnegata in cerca di giustizia.

La scena inizia e finisce in modo circolare, complice un telo che rivela e nasconde, scopre e annienta, illude e smentisce. Partorisce e uccide. Una figlia ormai adulta cerca la madre che l’aveva abbandonata per arruolarsi nelle SS ma sotto il telo dove la donna è nascosta, metafora scenica di occultamento e lontananza, ritrova un soldato invecchiato incapace di abdicare.

Una figura  grottesca, pesantemente  adagiata su un catafalco inclinato, nascosta al mondo non più da un telo ma da quell’inganno della coscienza che si chiama rimozione e che le impedisce persino di riconoscere la figlia. Protetta da una risata sguaiata, decorata da una quantità di collane, finte come le sue parole, elude domande e accomoda risposte difendendo la sua ubbidienza a “uomini d’onore”: tali li definisce l’autrice con una guizzante licenza che ci porta altrove, non certo per caso.

Perché se “la cultura è decadenza”, come dice la madre a proposito del rogo dei libri del 1933, ecco spiegata anche la decadenza del nostro tempo presente.

Così il dialogo tra le due, fatto di accuse, ricatti, difese inconsistenti, mentre ripercorre parte della vita di entrambe, getta anche una luce su quella  parte di storia che ci ha portato fin qui.

Due donne unite e divise da una bambola spezzata, testimone di riconoscimento ma non di riconciliazione, una giostra che ha lasciato buoni ricordi ma che non ha più ripreso a girare e due mondi, due strade, due anime che non si potranno mai penetrare.

Si esce con un congruo senso di resa e con noi  la controprova che la poesia si può ancora fare:  malgrado Auschwitz, ricordando Auschwitz, con nuove Auscwitz dietro la porta. Si può ancora, però non basta a salvare il mondo. Questo nostro mondo: fatto a pezzi, decaduto, consegnato nelle mani di pochi stolti farabutti.

Certo la cifra grottesca scelta dalla regia aiuta a diluire lo sconforto, l’atmosfera piacevole alla Kurt Weill con la quale il pubblico è accolto in platea dispone bene all’ascolto, e la creatura che sul palcoscenico accenna piccoli e sensuali passi di danza, una Irma Ciaramella in total black,  sembra promettere che ce la si può fare. O almeno ci si può provare. Magari a qualcun altro andrà meglio che a lei, a questa figlia sconfitta che fino all’ultimo istante non si è data per vinta.  

LA BAMBOLA SPEZZATA di Emilia De Rienzo/con Irma Ciaramella, Alessandra Ferro, Gianni De Feo/regia Gianni De Feo/aiuto regia Sabrina Pistilli/assistente alla regia Letizia Nicolais/costumi Gianni Sapone e Roberto Rinaldi/progettazione scenografia Roberto Rinaldi/musiche originali Adriano D’Amico/foto di scena Manuela Giusto/Grafica Umberto Cappadocia/produzione Lab 48 srls

di Alessandra Bernocco