Ottimo Migliore Ottimo

Riderò la mia amara risata
(epitaffio sulla sua tomba di Nikolai Vasilievich Gogol)

Valerio Mastandrea torna in scena con il monologo scritto per lui da Mattia Torre

Faccio ammenda non senza vergogna ma prima della scorsa prima, mercoledì 15 gennaio 2025 al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, a vent’anni di distanza dalla première con i crismi, credo proprio di non avere mai visto Valerio Mastandrea in teatro. Grave pecca. Sempre apprezzato al cinema ma in teatro, mai. Benché sia quasi convinta che per maturare un’idea giusta e completa di un attore, lo si debba vedere in teatro. Anche in teatro. Ora, a circa vent’anni dal debutto di Migliore, ce l’ho fatta, finalmente. E sono rimasta folgorata. Dalla tecnica portentosa e dalla padronanza della scena, lui solo, vestito con l’abito buono, le luci che colorano il fondale, il vuoto. 

Molto più di un cavallo di battaglia, Migliore è per Valerio un pezzo di cuore che sanguina al pensiero di un amico che non c’è più, Mattia Torre, regista e autore di questo affresco scritto apposta per lui, cucitogli addosso come un perfetto abito di sartoria.

Storia comica e tragica di un uomo ordinario che paga il fio di una buona azione dai risvolti infelici, il monologo è in realtà una polifonia di voci che offre il fianco a un virtuosismo da interprete navigato.

Ma non c’è maniera o non si avverte: si avverte invece la familiarità affettuosa di chi ha fatto pace con quel povero cristo a cui deve dar vita perché se diventa cattivo una ragione ce l’ha. Anzi due.

La prima è il senso di colpa che sa di vera e propria ingiustizia perché non tutti i danni si fanno per nuocere; la seconda è la nemesi dello sfruttato, il contrappasso di un povero di spirito che ha smesso di servire, supino, potenti arricchiti viziati e cialtroni.

Non scenderò nei dettagli di una storia che vale la pena scoprire a teatro ma non si può non condividere lo sguardo complice di autore e attore, l’ironia infinita e pure una congrua dose di salutare sarcasmo nei  confronti di certi tic, manie, meschinità che rimbalzano tra i pianerottoli e le spiagge dei tropici.

L’ottimismo serafico dei derelitti perennemente in cerca del lato bello delle cose brutte, la contrizione collettiva per la morte di un pero adottato in Piemonte (sic), gli abbracci dei parenti sospesi tra che piacere rivederti e com’è che non è ancora morto, le citazioni di un fanfarone erudito che “vuol sentire l’odore della tua umiliazione”, il politically correct sempre patetico liquidato con una battuta feroce, le tradizioni di una volta riposte in un tiramisù che dovrebbe custodire il vero senso della vita, le fregole amorose della figlia del capo lasciate a bagnomaria, fino a data da destinarsi.

Un pezzo di mondo che gira tra la porta accanto e il piano di sopra, tra il telefono che squilla e una postazione d’ufficio, tra l’umiliazione e la rivalsa spietata. Tra povere anime e anime povere. Compreso un alano che pare si materializzi con una smorfia, un cenno, un singhiozzo.

Da non perdere, Teatro Ambra Jovinelli, Roma, fino al 4 febbraio 2025

di Alessandra Bernocco