Stanze vuote comunicanti

Ognuno ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti.
(Pablo Neruda)

Questo sono i sogni: stanze vuote comunicanti. E quando l’infrangersi della fiducia nella realtà crea ombre, solo i cristalli di luce surreali dei bicchieri rotti, delle gocce di pioggia o delle lacrime, l’apertura di una porta verso l’interno, nel buio, per fare entrare la lampadina del corridoio, o la luce del sole dalle fessure delle tapparelle, con le pareti a strisce e il pavimento occupato dai dettagli a pezzetti, il giallo acceso di una lampada lungo un letto sperduto, o una scrivania invasa, che si allunga per gli spigoli sui soffitti, solo questi sprazzi di immaginifico possono riportarci all’interno del tutto, e sopra le cose di tutti i giorni. È come leggere, o scrivere, quando diventa necessario, essenziale, per singole parole sopraggiunte. Intravedendo. Sospettando. Inventando.

L’invito è a leggere. E io aggiungo: a scrivere!

Come quando siamo davanti a uno specchio che non ci specchia del tutto, o solo a frammenti, e in quelle isolate parti c’è lo scioglimento, la spiegazione, l’armonia degli angoli da cui ci si guarda nel divenire, o dal nulla. O perché ci siamo messi di lato, a guardare non solo noi ma anche lo sfondo, o perché quella luce è arrivata solo in un punto, e allora soddisfa, esaurisce, soltanto delle immagini parziali, dei movimenti recisi, quelle espressioni fugaci solo apparentemente in avvicinamento. Invece che oltrepassano l’inquadratura. E così esplicativi. Forse più veri, o forse più autentici (che è diverso da veri). Come spiegare l’immaginazione che si sovrappone alle cose di tutti i giorni, sottraendole al realismo e restituendole al nostro innato surrealismo, e insieme intimismo. Di sbieco. Idealizzare per strati, spiritualizzare i pezzetti, purificare le superfici, trasformare le forme.

foto di scena: Manuela Giusto

I nostri sogni: il nostro modo più naturale normale di esistere. Esistiamo in quanto sogniamo, e non è banale, L’esistenza non si esaurisce nella realtà, forse si consuma in essa, come una candela, il suo tempo, ma si sublima nelle favole, il suo profumo, il suo invisibile, che abbiamo inventato di noi stessi fin dagli inizi della nostra storia, ingigantendo o riducendo gli oggetti, i soggetti, per come li abbiamo vissuti e poi raccontati, e così seguendo la nostra stessa natura emotiva per singole emozioni sfuggenti, che poi inconsciamente abbiamo cercato di radicare. In esse il sentimento più profondo che ci guida, il dono che ci contraddistingue.

Le favole di Oscar Wilde per convincerci che è banale la rinuncia, che è volgare la rinuncia, che è brutale come gli altri ci vogliono a tutti i costi. Noi siamo noi stessi come siamo, e diversi da tutti, anche frantumati, rotti, o messi al tappeto. O soprattutto rotti, delusi e sconfitti. E forse, più siamo sconfitti più sogniamo, più ci apriamo a pezzetti alle atmosfere, a quelle situazioni inclinate che spaccano la scena, quando ormai la realtà ha mostrato irriducibile la sua faccia, la sua nuda ipocrisia, i suoi retroscena appunto, la sua cruda inettitudine: quella sua incapacità alla nostra felicità. Perché così è la realtà, la realtà è infelice. E allora quelle stanze vuote le possiamo riempire, almeno di ricordi o di visioni, di idee e creazione.

Questa scena teatrale parla appunto di favole, favole possibili, favole di Oscar Wilde.

Innanzitutto per cominciare a leggerle. E perché leggere è inventare.

foto di scena: Manuela Giusto

Ci sediamo in 34, 34 possibili sognatori su sedie messe in accumulo al centro di un palcoscenico circolare. Un cuore inaspettato che comincia a battere. Sul palcoscenico ci siamo proprio noi, carne viva, e sulle pareti intorno le nostre sublimi proiezioni, pareti fatte di finestre su stanze vuote, dentro alle quali ci lasciamo accadere attraverso gli umori degli attori. Il buio si fa più buio, voluto da una regia, come è, spesso radicale. Non un buio qualsiasi, un buio cercato voluto e ottenuto con ricercati effetti speciali, creato da 150 proiettori. Un buio nel quale poi ogni luce che si apre, diventa sapiente e soggioga agli onirici avvenimenti.

Quel palcoscenico comincia a ruotare e gli accadimenti non sono più frontali, o laterali, a volte accadono dietro di noi e li leggiamo negli occhi degli altri che li guardano seduti di fronte a noi, che con i loro occhi superano la nostra presenza. Così anche i suoni, i rumori, la pioggia, la musica. Un ascolto individuale seduti in mezzo agli altri, che ricevono il loro ascolto soggettivo del tutto in mezzo a noi. Un incrocio incastro di sensazioni, come nella metro o sugli autobus, come camminando in una strada affollata, ognuno con i suoi pensieri di assoluto e relativo, come in un vecchio film di Wim Wenders. Una riiniziazione ai sogni, per chi avesse dimenticato come fare, anche nella folla indistinta che occupa le nostre giornate. Un lavoro innanzitutto percettivo e di stimolo a tutti i canali sensoriali, un’operazione che proprio tenta di separarli quei canali sensoriali per riabituarli alla percezione che diventa sensazione e poi emozione, infine sentimento. Una esercitazione alla propria natura emotiva con il frammentarsi degli stimoli visivi e sonori, di movimento e concettualizzazione delle parole suggerite. Un lavoro anche semiotico, di linguaggio, simbolico, per spingere alla sublimazione, all’idealizzazione.

foto di scena: Manuela Giusto

Questa ruota orizzontale che ruota a fatica e lentamente sortisce un effetto ipnotico e rielaborativo, di noi stessi e degli abbracci ripetuti che si affacciano da ogni parte intorno a noi, così con gli uccellacci che si avvicinano suggestivi con quei loro becchi minacciosi e pericolosi, sempre dalle aperture geometriche del cilindro in cui ruotiamo, così con gli uomini sconfitti che cadono a terra in sequenza come per un domino collettivo, e con le figure sinistre che attraversano i corridoi che vanno verso un perimetro successivo, ulteriore, omeomorfo, così con le lampade che si intravedono negli angoli delle stanze. e le donne soggiogate e vinte, non meno con il volto di Oscar Wilde e la sua vita, la sua grafia, le pagine strappate che in giravolta sembrano svolazzare. L’effetto è quasi un impazzimento emotivo, tanto che ogni tanto aleggia il terrore vitreo nelle pupille di chi gira insieme a noi, ma tutti noi zitti riviviamo le nostre paure più recondite, e poi l’amore dei baci, la tristezza dei volti, il coraggio delle mani che si agitano nel vuoto in supplizio.

Quando tutto si ferma, e la realtà ritorna ingombrante, con le nostre giacchette e i telefonini in attesa di essere accesi, siamo stanchi. Abbiamo vissuto in un momento tutti i nostri vissuti e anche quelli degli altri, in un concentrato di esplorazioni emotive in accumulo che ora è impossibile districare. abbiamo avuto magicamente tutti addosso, quelli conosciuti e interiorizzati, quelli sconosciuti e concettualizzati, fin che adesso il nostro modo di sentire è finalmente di nuovo complesso come deve essere, carico di noi e di tutti gli altri, come del resto è nel moto e significato ancestrale antropologico delle favole.

Molto bravi e tanto applauditi tutti gli attori: Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La Stella, Aurelio Madraffino, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Michele Dirodi. La regia come sempre unica e irripetibile di Giancarlo Sepe (nonostante lo spettacolo venga riproposto dopo venti anni dal suo debutto).

Visto al Teatro La Comunità (rimasto in scena fino al 17 aprile)

di Chiara Merlo

Favole di Oscar Wilde (per cominciare a leggere)/Uno spettacolo di Giancarlo Sepe

con Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La Stella. Aurelio Mandraffino, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Michele Dirodi

scene Carlo De Marino/costumi Lucia Mariani/luci Pietro Pignotta/musiche Davide Mastrogiovanni-Harmonia Team/elettricista Erica Galante/scene realizzate da Scenografie Imparato & Figli/foto di scena Manuela Giusto)Produzione Teatro della Toscana