La voce si espande alla velocità del suono,
il rumore alla velocità della luce.
(Frano Vukoja)
Quando Mozart stava componendo alla fine del XVIII secolo, la città di Vienna era così tranquilla che gli allarmi antincendio potevano essere dati verbalmente, dalle grida di un guardiano montato sulla parte superiore della Cattedrale di St. Stefan. Nella società del ventesimo secolo, il livello di rumore è tale che i nostri corpi sono sempre stonati e fuori dei loro ritmi naturali. Questo crescente assalto del suono nelle nostre orecchie, menti e corpi aggiunge stress negli esseri civilizzati che già devono vivere in un ambiente molto complesso.
(Steven Halpern)
Compositore autorevole tra i giovani dell’avanguardia musicale, già negli anni ’50, in RAI, Luciano Berio, insieme a Bruno Maderna, costituisce il primo studio di musica elettronica italiana (Studio di Fonologia Musicale).
Sperimentando nuove interazioni tra strumenti acustici e suoni prodotti elettronicamente, tra suono e parola, attraverso complesse combinazioni timbriche, usando la vocalità femminile come nuova risorsa espressiva (con la voce di Cathy Berberian), si fa presto strada nelle sue composizioni quella sua concezione drammaturgica delle “opere vocali”.
L’insieme di brani solistici e dei relativi Chemins – elaborazioni per insieme strumentale di alcune Sequenze – evidenzia il peculiare carattere di “progressione” del comporre di Luciano Berio: il lavoro di composizione è un incessante processo rielaborativo dei suoni, che porta mano a mano a una complessità concettuale del suono stesso nel “passaggio” da un pezzo all’altro, da un movimento a un altro, da uno strumento o una voce a un insieme di strumenti o voci.
La comunicazione musicale è con Berio l’esplorazione elettronica di Momenti, di Volti, di Differenze, di Sincronie, isolando e poi accumulando suoni, strappandoli, allargandoli, in verticale e in orizzontale.
I primi lavori realizzati per il teatro, quali Allez-Hop (1952/1959, da Calvino), Passaggio (1962) e Laborintus II (1965), entrambi su testo di Sanguineti, esprimono esattamente questa complessità.
Nello spettacolo, prodotto da Nexus Factory, Tempo Reale ed EstOvest Festival, si innestano suoi materiali diversi: le composizioni di Berio Visage, per suoni elettronici e la voce di Cathy Berberian su nastro magnetico (1961), Les mots sont allés…, “recitativo” per violoncello (1976 – 78), Sequenza XIV, per violoncello (2002) e I colori della luce (1963), presentate in esecuzioni esclusive autorizzate dagli eredi del compositore; Visioni su “Visage”, in cui Roberto Masotti e Silvia Lelli interpretano visualmente Visage (montaggio di Gianluca Lo Presti/Mammafotogramma) e i rari video di Bruno Munari e Marcello Piccardo.
Mettendo in relazione la musica con vari campi del sapere umanistico: la poesia, il teatro, la linguistica, l’antropologia, l’architettura, Luciano Berio e la sua visione interdisciplinare della musica disi-stratificano la musica stessa, e il rumore, in frammenti di suono e parole, in singole voci che cercano e trovano labirinti certi dentro di noi, per arrivare al ricordo o al sogno, alla sensazione/impressione più intima di noi stessi, persa, rarefatta, svanita a tratti, nei meandri più lontani o forse più cupi della nostra “mente percettiva”.
All’ex Mattatoio di Testaccio, Roma, dove le urla e le voci abitano da sempre queste ex stalle, veniamo come accolti in una stanza con proiezioni di suoni e di luci, onde sonore e luminose insieme che dal bianco e nero si trasformano in colori, e che dal lamento, mugugno, introiettato, ingoiato dal concetto che ne vorremmo avere, compresso, tenuto premuto perché non sfugga, si intensificano in urlo acuto intenso quasi insopportabile e poi evanescente, fitta dolorosa, traiettoria personale per il dolore. Immagini ingrandite. Suoni ingranditi. E poi di nuovo rimpiccioliti. Lo stesso lavoro viene fatto insieme, oltre che con i “singoli” suoni ri-percossi, anche con “il rumore”, e con il movimento, un impazzire vorticoso di vetri rotti sonori/interruzioni di vita, amplificazioni e sotterranei rigurgiti di fonemi, parole costrette a non essere dette, ma solo interiorizzate, e movimenti continuamente troncati, sospesi, da questi suoni ingoiati e sputati, da corpi che si agitano a singhiozzo, che ci viene, noi seduti, di dondolarci in avanti come per alzarci, e poi pentirci, bloccati in quel dondolio che è quasi un’ossessione trattenuta.
Il corpo di Silvia Lelli ben esprime anche quel nostro malessere, e poi la dolcezza dell’arrendersi ruotando/nuotando come nell’aria, raccogliendo quello stesso corpo come in un gomitolo, e poi di nuovo in scatti nevrotici di resistenza e disobbedienza al suono stesso, al suo impulso. Il rumore come liquido sonoro spezzato da continui ostacoli uditivi a cui apparentemente ci si abitua e che invece invadono e devastano. Irrequieti “ci aggiustiamo” in mezzo alle immagini, quei video che raccontano strade palazzi persone, un mondo in un equilibrio disordinato, in incastri intolleranti e invece vissuti per abitudine. Donne di spalle, uomini di spalle, verso che cosa? Non c’è l’infinito di Caspar David Friedrich, ma una infinita sequenza di possibilità senza assoluti, i percorsi dell’immaginazione visiva e visionaria dati da ogni eventuale situazionale percorso sonoro.
Uno spettacolo molto interessante e insieme suggestivo, con le corde del violoncello che stridono sul parquet del teatro e il corpo di una danzatrice, poco armoniosa agli schemi della danza e invece dirompente.
Visto venerdì 3 ottobre alle ore 21 al Mattatoio di Roma, prima assoluta, nell’ambito di Romaeuropa Festival: “Berio a colori”, performance multidisciplinare creata a partire da significative composizioni di Luciano Berio in occasione del centenario della nascita, di e con la coreografa e danzatrice Simona Bertozzi, il violoncellista Claudio Pasceri, la regia del suono di Tempo Reale (Francesco Canavese e Francesco Giomi) e le luci di Luisa Giusti.
di Chiara Merlo
